di Alice Cavalieri
Il 9 novembre, la Commissione europea ha avviato quella che sembra destinata a divenire una delle più importanti riforme della governance economica europea dalla sua nascita. Dopo anni di politiche neoliberiste, già previste e in parte avviate con il Trattato di Maastricht del 1992, e poi rafforzate con la crisi economica dell’Eurozona, le istituzioni europee hanno aperto da pochissimo una discussione per tentare un nuovo tipo di approccio di fronte alle sfide attuali. Approccio che abbiamo iniziato a conoscere durante la crisi pandemica, quando le regole più severe sul rispetto dei parametri economici sono state temporaneamente sospese e altre misure prima considerate impossibili, per ragioni politiche, sono state sperimentate per la prima volta (ad esempio, il finanziamento delle misure di ripresa dal Covid tramite debito comune).
Con la nuova riforma, ancora agli stadi preliminari della discussione, si cerca di seguire questa scia, che privilegia la solidarietà tra paesi membri. I molto stringenti parametri di Maastricht che dettano vincoli precisi a tutti i paesi dell’Eurozona non saranno però in discussione, quasi come avessero un’aura di inviolabile sacralità che non permette di cambiarli. Ma questo non è l’aspetto più importante e, forse, neppure un ostacolo alla nuova rotta. Già dalle parole del vice-presidente della Commissione Dombrovskis sembra intuirsi la volontà di porre più attenzione alle questioni domestiche dei paesi dell’Eurozona e a politiche troppo a lungo trascurate: tra queste, politiche ambientali, sostenibili, energetiche, con un occhio alla transizione digitale e, soprattutto, politiche che prevedano investimenti di lungo periodo. Accostare quindi una visione di ampio respiro ai soli vincoli economici che per anni hanno vessato l’Europa, soprattutto i paesi debitori. In Italia, questa dinamica e le politiche di austerity chieste dall’UE hanno alimentato l’ormai fortissimo sentimento dei/lle cittadinƏ di aperto distacco dall’UE e un atteggiamento di scontro, in molte occasioni, tra i politici nazionali e i commissari europei, soprattutto nei mesi della discussione della legge di bilancio.
La riforma cambierà anche le tempistiche: piani di aggiustamento e riforme con un arco temporale di 4–7 anni. Significa che il governo in carica deciderà le riforme da implementare, potenzialmente, per i successivi 7 anni. L’idea, nella sua versione teorica, sembra buona ma può scontrarsi con le tempistiche della politica interna di ciascun paese. In Italia, ad esempio, una legislatura dura 5 anni, tanto quanto dovrebbero durare i governi. Ma si sa che a casa nostra la teoria è quasi sempre un’eccezione. In ogni caso, anche nell’eventualità in cui si riuscisse ad avere esecutivi più duraturi, un piano a 7 anni ricadrebbe inevitabilmente sulle spalle del parlamento eletto successivamente. Se la legge di bilancio venisse usata “soltanto” per lo scopo che le è stato affidato dalle leggi in vigore (settare parametri di debito, deficit e allocazione della spesa per il triennio seguente), senza focalizzarsi eccessivamente su politiche micro-settoriali di cui dovrebbero occuparsi le leggi ordinarie, non ci sarebbero grandi problemi: i governi –anche più di uno in una singola legislatura, come già accade– potrebbero andare ad incidere nelle loro materie preferite senza stravolgere i parametri che incorniciano il bilancio pubblico.
Così non è e quello che verosimilmente potrebbe accadere è che i governi continueranno a pubblicizzare e promettere, nella loro comunicazione e retorica politica, grandi interventi sul piano economico e finanziario. Interventi che però potrebbero essere in larga parte impossibili, perché i fondi pubblici saranno già stati vincolati dall’esecutivo precedente che ha discusso l’allocazione di spesa con l’Europa. Il distacco tra promesse e fatti potrebbe aumentare e di questo si potranno incolpare, ancor di più, i governi precedenti e l’Unione europea. Di conseguenza, anche il distacco tra cittadinƏ e classe politica continuerà a crescere, come pure quello tra cittadinƏ e istituzioni sovranazionali. È un vicolo cieco?
Potrebbe sembrare, ma crediamo di no. Come stanno facendo in Europa, abbiamo voluto iniziare ad immaginare alcuni scenari rispetto ad un tema fondamentale per tutti noi, che siamo cittadinƏ italianƏ ma anche europeƏ. Una riforma di tale portata necessita e merita un’attenta discussione ed esame, oltre che molto coraggio. Potrebbe essere davvero il momento giusto per rinforzare il carattere sovranazionale dell’Unione, ma per questo bisogna avere coraggio e visione.