È passato un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin e non è cambiato nulla. La contrizione per la sua morte è rapidamente stata relegata alle colonne degli editoriali, le promesse di provvedimenti da parte del governo sono durate giusto il tempo di un’altra tornata elettorale.
Il patriarcato non c’è più, dicono. Roba d’altri tempi, dicono. Casi isolati. Eppure la vicenda di Gisèle Pelicot ci racconta il contrario, che il patriarcato è vivo e vegeto e che si nasconde in bella vista nelle nostre case, nei nostri uffici, nelle nostre strade. E anzi si è evoluto, ha assunto una forma reazionaria, cerca di ribellarsi alle nostre pretese di diritti e uguaglianza, e lo fa attraverso nuove e più perverse forme di violenza, attraverso una dominazione che vuole ridurci all’impotenza nel fisico e nelle parole.
Non vogliamo più dover pensare a come siamo vestite, non vogliamo più dover condividere la posizione con le amiche, né coprire il cocktail con la mano, non vogliamo più guardarci attorno prima di scendere dall’auto.
Non vogliamo più essere ignorate da vive e piante da morte, mentre intorno niente cambia.
Non siamo prede, non vogliamo più essere cacciate.