Su Repubblica di ieri è stata pubblicata una lettera a firma di Beppe Sala, sindaco di Milano. Sala affronta la questione dell’accoglienza, per come è gestita a livello europeo, italiano e quindi cittadino. In sostanza si dice: “Milano fa la sua parte, ma ci aspettiamo di non essere lasciati soli dal governo, e ci aspettiamo che anche i migranti facciano la propria parte”.
«Come cittadino — scrive Sala — ritengo che l’accoglienza non sia una scelta, ma un dovere. Come sindaco di Milano sono convinto che la nostra città viva nell’accoglienza uno dei tratti distintivi della sua identità. Come uomo di sinistra penso che ogni singolo migrante vada richiamato ai suoi doveri, ma nel frattempo gli tendo la mano». E prosegue: «è necessario che il governo operi perché tutto questo non continui a pesare come un macigno sulle spalle della città. Abbiamo bisogno di una politica di integrazione seria, pianificata e dotata dei mezzi finanziari adeguati. […] Bisogna poi costruire un nuovo e reale sistema di integrazione. Si tratta di proporre un nuovo patto a chi arriva: noi faremo tutto quello che serve a darvi una mano, voi mostratevi disponibili da subito ad aiutarci dove serve, mettendovi a disposizione di programmi per conoscere le nostre leggi e la nostra lingua».
Questo è quanto scrive Sala. Sicuramente pragmatico, pone l’accento sulla gestione del fenomeno a livello amministrativo, mettendo in rilievo i limiti cui è sottoposta la sua amministrazione, chiedendo aiuto al governo e ai migranti stessi, “richiamati ai doveri” e alla necessità di “mostrarsi disponibili”.
La lettera — e non è un caso — è arrivata a poche ore dal Summit delle Nazioni Unite sui rifugiati e i migranti. E Sala non è stato l’unico sindaco ad avere questa idea: Bill de Blasio (New York), Anne Hidalgo (Parigi) e Sadiq Khan (Londra) hanno firmato uno scritto in maniera congiunta (pubblicato dal New York Times) che — con tutto il rispetto per Sala — si muove su un piano che non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello del sindaco di Milano.
Prima di tutto, non avanzano un richiamo al mostrarsi disponibili ma, anzi, scrivono che «è sbagliato caratterizzare le comunità di migranti e rifugiati come radicali e pericolose; nella nostra esperienza, la violenza militante è infinitamente rara. Di conseguenza, dobbiamo continuare a sostenere un approccio inclusivo al loro insediamento, in modo da combattere la crescente marea di linguaggio xenofobo nel mondo. Questo linguaggio porterà solamente a una maggiore marginalizzazione delle nostre comunità di immigrati, senza rendere noi più sicuri in alcun modo».
«In quanto sindaci di tre città globali — proseguono, schierandosi chiaramente dalla parte dei rifugiati -, chiediamo ai leader mondiali che discuteranno presso le Nazioni Unite di prendere azioni decisive per fornire sollievo e rifugio a coloro che fuggono dai conflitti e dalle difficoltà economiche (i migranti economici, addirittura!) e di sostenere coloro che già operano in questo modo».
«Investire nell’inclusione di rifugiati e migranti non è solo la cosa giusta da fare, è anche la cosa più intelligente. Rifugiati e cittadini di altri paesi portano capacità di cui abbiamo bisogno, migliorano la vitalità e la crescita delle economie locali, e della loro presenza hanno a lungo beneficiato le nostre tre città».
«Noi faremo la nostra parte», scrivono. Ed elencano i progetti attuati dalle loro città per favorire un’inclusione a tutto tondo, che non sia solamente un sostegno fine a se stesso, perché «ogni residente si senta parte delle nostre grandi città».
E’ un po’ quello che ci si aspetta di sentire da tutti i sindaci di una grande città europea, snodo economico e culturale globale. E’ un po’ quello che ci si aspetta di sentire dal sindaco di Milano, ecco.