Dopo le “ragazze dell’Est” di “Parliamone sabato”, è il turno delle Romagnole. “Buone, facili e veloci… le piadine! Cosa avete capito?”.
Tutto secondo Eataly, come immortalato oggi in una foto da “Narrazioni differenti”.
Ci preoccupiamo, giustamente, di come si parli delle donne sui social, sui loro profili, nei gruppi chiusi che amplificano il sessismo e la violenza (perché anche quella è violenza, se non fosse ancora chiaro). Come se il problema fosse sempre e solo su internet o su Facebook, e quindi, paradossalmente, circoscrivibile a quello che passa attraverso quei canali, espressione dei singoli, che si possono fare branco, armati di tastiera (come se tutto questo non facesse comunque parte e sempre di più delle nostre vite).
Poi, però, il sessismo ce lo ritroviamo dappertutto, dal giornalismo che si sente progressista perché usa il termine “femminicidio”, però poi aggiunge che si uccide per “esasperazione”, per “paura dell’abbandono”, per “il dolore di una separazione”.
Dalle trasmissioni di costume, come quella ricordata in apertura, che sull’onda dell’indignazione ha chiuso i battenti. Lasciando però intorno a sé tanti altri contenitori di servizi simili o anche peggiori, in cui trovano comodo spazio tutte quelle voci che ci preoccupano sui social, dalla conduttrice che dice gli uomini uccidono “per troppo amore”, alle tirate sessiste (oltreché spesso omotransfobiche, razziste e in generale sessuofobe) degli ospiti.
La pubblicità, gli slogan, come questo di Eataly, non sono esenti da questo uso del linguaggio che non tiene conto dell’impatto delle parole e del fatto che il modo in cui parliamo di qualcosa influenza irrimediabilmente il modo in cui la pensiamo. Sono parole, ma non sono chiacchiere, sono strumenti e possono diventare armi. Il gioco di parole, la battuta ammiccante, che più spesso si incontrano in pubblicità, per la natura stessa del medium, fanno da sempre leva sugli stereotipi, meglio se con una sfumatura sessuale, che fa sempre effetto. Ma lo stereotipo, l’allusione sessuale, la risata (quando c’è) strappata sulla pelle di qualcuno, non sono innocui, mentre ogni giorno nelle scuole e per le strade le associazioni, gli insegnanti, centinaia di persone, cercano di combattere il pregiudizio e il bullismo con tutti i mezzi, spesso appena sufficienti, a disposizione.
Il sessismo e la violenza di (ogni) genere non sono “chiacchiere da spogliatoio”, come ha giustificato le sue dichiarazioni Trump in campagna elettorale. Ma passano anche attraverso le chiacchiere, attraverso la scelta di slogan pubblicitari infelici, attraverso la riduzione delle persone a stereotipi — siano essi di genere, di razza, di condizione fisica.
Di fronte a chi minimizza, nel migliore dei casi, o si disinteressa all’argomento perché convinto che sia qualcosa che riguarda qualcun altro, come nel caso del razzismo, ricordiamoci che gli stereotipi funzionano tutti nello stesso modo, nessuno escluso. Le “ragazze dell’Est” come le romagnole, come la Sicilia. Perché dall’app governativa dedicata ai giornalisti che si accreditano al G7 in Sicilia, come fatto notare ieri, si scarica l’immagine di un ragazzo con la coppola e le bretelle che guarda concupiscente una ragazza coll’ombrellino di pizzo.
Possibile che anche la comunicazione politica continui a ricorrere a questo linguaggio e questo immaginario fossilizzato, come se due ragazzi in jeans non fossero abbastanza “siciliani” (magari sullo sfondo di uno dei mille scorci a disposizione) senza l’ausilio dei costumi di scena? Magari la stessa politica che reagisce indignata e impettita quando a rivoltarci contro stereotipi duri a morire o costruiti di fresco sono gli altri, quelli che stanno dall’altra parte del confine (e lo vogliono chiudere di notte per tenere fuori i ladri).