All’interno del percorso che stiamo dedicando al recupero alimentare e all’alimentazione, abbiamo intervistato Pietro Parisi, chef di fama internazionale, che ha deciso di tornare alla sua terra e di sfidare chi dice che nulla può cambiare.
La tua è una storia che sicuramente esce dagli schemi convenzionali. Raccontaci prima di tutto da dove vieni.
La mia storia inizia da una borgata contadina della cosiddetta Campania felix, dove l’agricoltura è stata centrale nell’economia fino agli anni ’80. Tra i miei ricordi d’infanzia ci sono giornate passate nei campi di pomodoro con i miei nonni, che erano coltivatori diretti.
Pensi che questi ricordi siano legati alla tua formazione professionale?
Sì, senza dubbio. Ho scelto di fare la scuola alberghiera e di specializzarmi in cucina, e credo che la mia scelta sia anche dettata dal fatto che una famiglia contadina come la mia pensa al cibo, sempre e comnque. Cibo povero, ma di qualità. Cibo che non deve essere sprecato. Dalla mia famiglia ho imparato come utilizzare il pane raffermo, gli avanzi dei carciofi, a come affrontare l’inverno senza prodotti di serra preparando la dispensa d’estate.
Dalla scuola poi sei passato alla pratica. E a tante esperienze di altissimo livello.
A quindici anni ho abbandonato la Campania, soprattutto per fare esperienze nuove e apprendere nuove tecniche. Francia, Danimarca, Svizzera, Dubai, Grecia. Mi sono immerso non solo nella loro cucina, ma nella loro cultura gastronomica. Sono stato alla corte di Ducasse e Marchesi, e ho iniziato a farmi delle domande: per quanto crescessi professionalmente, imparando a come trattare gli alimenti, mi accorgevo che le stagionalità non venivano rispettate, e questo non mi andava giù. Ho lavorato in un albergo a sette stelle a Dubai che proponeva cucina italiana. Una cucina che però tradiva gli insegnamenti di mia nonna. Mi sembrava di aver rubato alcune tradizioni, senza aver dato nulla in cambio. Nel frattempo sentivo parlare di terra dei fuochi, di camorra.
E a questo punto hai deciso di tornare.
Sì, e tornare non è stato semplice. La cultura gastronomica era rimasta la stessa di quindici anni prima: si andava al ristorante solo per fare “banchetti”, ma non per fare esperienze legate al gusto e al territorio. Per questo motivo ho deciso di sperimentare un ritorno ai piatti semplici di una volta, ma con un’attenzione particolare alla salubrità dei piatti, al territorio, alla sostenibilità ambientale e sociale.
Questi ultimi aspetti ci interessano particolarmente. Spiegaci come è possibile costruire un modello di business che rispetti territorio, ambiente e persone.
Ti faccio un esempio. La prima rivisitazione è stata sulla parmigiana di melanzane, che ho cotto al vapore e che ha avuto un ottimo successo. Questa cottura permette una conservazione più lunga, il che ci permette di comprare le melanzane dai contadini del territorio anche nei periodi di grande abbondanza, sempre a un prezzo equo. I contadini ora si fidano di noi, sanno che possono contare su una domanda solida e costante. Ma non finisce qui. Delle melanzane non sprechiamo nulla: le bucce le utilizziamo per ricavare un nero di seppia vegetale. Filiera corta, prezzo equo, cottura salutare, sprechi ridotti al minimo: tutto a partire dalla parmigiana di melanzane.
I fornitori hanno un ruolo di rilievo nella tua impresa.
Assolutamente: abbiamo sostituito i marchi con i volti dei produttori locali. E’ una scelta che si ritrova anche nei nostri menù, dove diamo visibilità ai produttori locali, così che i nostri clienti diventino loro clienti.
La scelta di investire sulla qualità non comporta un aumento dei prezzi e quindi una selezione all’ingresso tra i tuoi clienti?
No, la filiera corta ci permette di mantenere prezzi assolutamente competitivi. Se compro il latte direttamente dalla stalla lo pago 60 centesimi al litro, se lo compro dai banchi della grande distribuzione posso pagarlo 2,10 euro. Il che mi spinge a una riflessione: è corretto che i costi della filiera superino il prezzo reale del latte? È corretto che gli intermediari guadagnino più dei produttori? Le persone devono sapere che possono mangiare prodotti di qualità al giusto prezzo.
La reponsabilità sociale della tua impresa non finisce qui, ma si concretizza anche in alcuni progetti.
Sì, tra i principali c’è sicuramente l’orto sociale che abbiamo creato a Secondigliano. Donando un orto ai detenuti doniamo loro la possibilità di avere qualche ora di aria in più, ma soprattutto di potersi esprimere e di imparare una professione che li arricchisce. Abbiamo creato un orto sociale anche a Bamako, mentre un altro progetto sul territorio è la vendita di panino, composto con ingredienti di qualità e del territorio, e acqua a un euro per i bambini che vanno a scuola. E una parte del ricavato lo doniamo all’Unicef.
Che cosa ti ha insegnato la tua storia?
Che tutto è difficile per chi crede che non ci siano alternative. Se ci crediamo, possiamo creare cose importanti, che rivoluzionano la realtà.