[vc_row][vc_column][vc_column_text]L’abbiamo detto, scritto e spiegato in tutti i modi che i referendum leghisti (meglio: lanciati dalla Lega ma terribilmente larghi nelle intese come va di moda di questi tempi) sono carta straccia se valutati nella reale incisività politica, come ha scritto Stefano Catone qui. L’abbiamo detto e lo ripetiamo oggi, anche se Zaia campeggia su tutte le prime pagine (con sullo sfondo un depresso Maroni accoltellato dalle beghe di partito come nella migliore tradizione delle idi di marzo, seppure a ottobre) e anche se improvvisamente il turbo federalismo è tornato prepotente di moda come in un anno ’90 qualsiasi.
È inevitabile anche che se domani proponessimo un referendum che chiede “volete bene alla mamma?” avremmo sul piatto un altro plebiscito delle stesse proporzione e della stessa utilità di questi appena passati eppure anche oggi, come già accaduto nella campagna referendaria, assistiamo a un surreale dibattito che si ostina a prendere sul serio ciò che serio non è: concedere a Zaia e Maroni di dirci che ne vogliono fare del risultato del referendum, discuterne, buttarsi sull’analisi delle loro parole significa legittimare il nulla elettorale su un tema serissimo come quello delle autonomie (ne scrive bene Thomas Castangia qui).
Per questo il danno, se possibile, è addirittura doppio: da una parte si è prestato il fianco alla propaganda mentre dall’altra si è buttata via l’occasione di discutere seriamente dell’autonomismo regionale che è meriterebbe qualcosa di più di un polpastrello su un tablet per rispondere a un quesito generico. In questa fase politica tutta alla rincorsa di temi che durino il tempo di uno spot si è bruciata l’occasione di discutere di riforme che servirebbero davvero e, soprattutto, per l’ennesima volta si è persa l’occasione di stare nel merito della questione.
Perché è terribilmente seria la politica, troppo seria per diventare un referendum nullo. Troppo seria per permettersi di continuare a disattendere speranze.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]