[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1506324884418{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]Un lungo e sentito racconto, quello che ci propone Margherita Corrado nella sua lettera. Margherita Corrado è un’archeologa calabrese, ma non solo: cittadina nel senso più alto del termine, impegnata nella difesa dei beni comuni e scomoda al potere. Pubblichiamo molto volentieri il suo scritto e ci schieriamo, ancora una volta, al suo fianco.
Sono un’archeologa. Ho avuto la fortuna di fare il lavoro per cui mi sentivo portata fin da bambina ma riconosco a mio merito la tenacia che c’è voluta per non deviare verso strade più ‘comode’ e più remunerative.
Lavoro dal 1997, come libera professionista, collaborando da esterna con l’Amministrazione dei Beni Culturali. Fino al 2016 non ho mai tentato concorsi per entrare nei ranghi del Ministero: gestire personale, dirigere musei e aree archeologiche mi è sempre sembrato meno interessante del lavoro sul campo, della ricerca a terra e a tavolino, dell’emozione irripetibile della scoperta.
Per molti anni il mio scopo è stato fare esperienza, nei più diversi contesti geografici e cronologici – ho lavorato in Calabria un po’ dappertutto, e talvolta anche in Puglia –, per poter svolgere al meglio la mia attività: sono una perfezionista, ho cercato di acquisire le conoscenze e le abilità necessarie per ottenere il massimo risultato possibile da ogni occasione datami, a prescindere dalla variabilità delle condizioni logistiche.
Col tempo, però, lo scavo archeologico è diventato, per me, qualcosa di diverso da ciò che era all’inizio. L’esperienza crotonese di Piazza Villaroja, in particolare, nel 2009–2010, mi ha permesso di dimostrare innanzi tutto a me stessa, che fin lì l’avevo solo teorizzata, la possibilità ed anzi l’imperativo morale di svolgere le indagini archeologiche, persino in ambiti complessi come i centri storici, riducendo al minimo il disagio, oggettivo, per i residenti ma assumendo come prioritario lo scopo di compensare la comunità tutta per lo sforzo compiuto (non solo ma anche economico) sia mediante la più larga condivisione dei risultati – non un secondo tesoro che automaticamente diventa ‘patrimonio’ del funzionario di turno ed è destinato a ‘morire’ con lui ma motivo di giusto orgoglio per il recupero della memoria collettiva -, sia condividendo con il pubblico l’emozione della scoperta mediante un cantiere aperto, trasparente, non repulsivo.
Il Calabrese vuole essere parlato, scriveva Corrado Alvaro, ed è proprio così, specialmente quando si tratti di avvicinarlo ad un mondo che non è d’immediata comprensione per tutti ma richiede la mediazione culturale di chi è in grado di tenere le fila dei tremila anni di storia che comunità come la nostra, crotonese, possono vantare.
L’esperienza di Piazza Villaroja è stata, dunque, per gli straordinari risultati ottenuti sia sul piano strettamente scientifico sia su quello della partecipazione della popolazione ad un momento di riscoperta del patrimonio comune, un passaggio importante per la mia maturazione personale e il prosieguo della mia attività non solo professionale.
Da allora, dopo il tentativo (fallito) di difendere il settore storico del cimitero di Crotone dalle mire demolitorie del Comune, con la piccola associazione culturale chiamata “Sette Soli”, fondata a fine 2012, spesso di concerto con le amiche dell’allora coop. sociale “Gettini di vitalba”, il mio tempo libero si è sempre più orientato verso il monitoraggio e la difesa del patrimonio culturale. Non più solo archeologia, dunque, anche se a Crotone questa è una presenza ineludibile.
Ho dovuto studiare, approfondire, fare ricerca per tentare di impedire che, nel 2013–14, il Castello di Carlo V fosse stravolto da un progetto il cui solo merito era la cospicua dotazione finanziaria. L’ho fatto non solo per poter difendere con argomenti validi le posizioni di chi si opponeva allo scempio ma per essere in grado di sensibilizzare il maggior numero possibile di cittadini affinché prendesse coscienza del rischio, lo assumesse come proprio e sentisse la responsabilità di fare qualcosa di concreto, individualmente e collettivamente, per orientare le cose in senso diverso.
E’ stata la stagione delle visite guidate ripetute una volta a settimana per vari mesi, degli appelli elaborati e condivisi con i cittadini più sensibili, delle sollecitazioni agli uomini e alle donne di cultura di questo Paese perché, pur lontani geograficamente e mentalmente, prendessero a cuore le sorti della fortezza crotonese.
Per paradosso, c’è voluta un’altra situazione di gravissima difficoltà perché gli sforzi a favore del Castello andassero a buon fine e il Ministero respingesse definitivamente il progetto di stravolgimento elaborato dall’arch. Dezzi Bardeschi e sposato dal Comune di Crotone con la solita entusiastica imbecillità.
C’è voluta la tentata cementificazione del foro di Capo Colonna, a gennaio 2015. Il progetto, un APQ da 2,5 milioni di euro, prevedeva cinque interventi, uno solo dei quali ragionevole e utile a migliorare la fruizione dell’area archeologica, gli altri insensati, talvolta dannosi e sempre gonfiati nei costi.
“Sette Soli” aveva segnalato al Ministero le anomalie più evidenti, facilmente desumibili dalla lettura del progetto definitivo, fin dall’autunno 2014, senza esito. Si organizzarono allora visite guidate domenicali all’area in corso di scavo – il piazzale antistante il santuario e Torre Nao – già sapendo che sarebbe stata cementata e pavimentata in modo indiscriminato. Quando però, nonostante i funzionari locali del Ministero negassero l’evidenza, apparve chiara l’importanza dei ruderi destinati ad affogare nel cemento, le mie competenze professionali sono state preziose per ribaltare la visione partigiana della realtà che i progettisti avevano cercato e cercavano con ogni mezzo di imporre alla cittadinanza – fecero persino circolare su canali ufficiali un fotomontaggio dell’area interessata dal pellegrinaggio mariano, per avallare le loro posizioni -, fare in modo che i media se ne occupassero e il Ministero stesso fosse chiamato a rispondere di scelte così radicali, invece di liquidare il tutto come una bega minore nella più periferica provincia dell’Impero…
Non ho dovuto, allora né dopo, affrontare conflitti morali. Il lavoro che ho scelto ha come scopo ultimo migliorare, per me e per tutti, la conoscenza delle culture del passato non come mero esercizio intellettuale ma per consentire al singolo e alla collettività, secondo le diverse sensibilità ed esigenze, di trarre da quell’incremento tutti i vantaggi possibili, siano essi di ordine spirituale o anche, perché no?, di natura economica, ammesso di saperlo fare.
Non mi sono sentita, perciò, in nessun caso contro il Ministero abbracciando una causa, quella della difesa del foro di Capo Colonna dal cemento, che mi ha portata oggettivamente a trovarmi dall’altra parte della barricata.
Ho sempre creduto di agire nell’interesse dell’Amministrazione con cui collaboro da vent’anni (e se non avessi fiducia nella sua utilità e capacità di agire per il meglio avrei smesso di farlo tanto tempo fa), rendendomi però conto che aveva abdicato più o meno consapevolmente alla propria funzione, che è fare l’interesse pubblico applicando l’Art. 9 della Costituzione.
La lucidità garantita dall’esercizio del pensiero critico, e dunque la capacità di distinguere tra il bene e il male anche in situazioni apparentemente di poco conto, è una dote da coltivare con passione, credo, qualsiasi lavoro o impegno si abbia nella vita. La fedeltà ottusa alla causa del proprio ‘istituto’ rischia, infatti, di trascinarci nel baratro insieme a quello, quando chi lo guida non abbia più la rettitudine morale necessaria a mantenere prioritario l’interesse collettivo.
Grazie al FAI e a Gian Antonio Stella, ultimi anelli della catena virtuosa che si innescò nei primi mesi del 2015 a difesa di Capo Colonna, in aprile l’allora Direttore Generale Archeologia decise un drastico cambio di rotta, intervenendo con l’umiltà di chi sapeva di dover rimediare ad un errore madornale ma anche con l’ambizione di dare, dopo un estremo esempio di negatività, una prova della capacità del Ministero di agire invece con la professionalità e l’abilità tecnico-amministrativa che appartengono alla sua tradizione.
In quelle circostanze non solo fu rimodulato lo sciagurato progetto relativamente al foro e alla tettoia delle terme romane ma anche la questione del Castello di Carlo V fu affrontata e rapidamente risolta usando buon senso.
La discutibile riforma del Ministero attuata da Dario Franceschini è purtroppo intervenuta, a primavera 2016, nelle more dell’esecuzione del progetto rivisitato, a togliere mordente a quel risarcimento del danno subito che era stato garantito ai Crotonesi dopo l’epica protesta di gennaio-aprile 2015. E per colmo di sventura, da luglio, la nuova Soprintendenza unica (Archeologia, Belle Arti e Paesaggio) per le province di Cosenza, Catanzaro e Crotone è stata affidata al dott. Mario Pagano.
Insediatosi l’11 luglio 2016, nel giro di una settimana il nuovo Soprintendente ha autorizzato l’ampliamento dello stadio “Ezio Scida” in area vincolata, aggirando, di fatto, le norme del Codice dei Beni Culturali. La mia voce di dissenso, nell’occasione, è rimasta pressoché inascoltata, troppi interessi di parte essendoci in gioco perché le autorità si preoccupassero del bene comune. A distanza di tempo, il servizio tv delle Iene, andato in onda a metà febbraio 2017, ha fatto però ridere tutta Italia anche di quella vicenda a dir poco paradossale.
Giudicando l’episodio gravissimo, poiché costituisce un precedente spendibile su tutto il territorio nazionale, per conto di “Sette Soli” ho chiesto e ottenuto dalla Direzione Generale del Ministero, il 19 ottobre 2016, l’accesso agli atti relativi a quel cantiere ma anche ad un altro intervento molto discutibile condotto in area urbana (mura bizantine) e alle due situazioni scabrose che intanto di delineavano a Capo Colonna. Alludo al disimpegno del Ministero post-riforma rispetto alle attività di completamento dell’APQ rimodulato e alla possibile riapertura del cantiere del “Marine Park Village” a Scifo.
Grazie alle decine di atti fotocopiati nell’occasione, ho cercato di incidere sugli esisti di quei quattro cantieri, nel mio piccolo, utilizzando al meglio le competenze acquisite negli anni: perduta la battaglia per lo Stadio, perché restasse comunque memoria di quanto accaduto, delle responsabilità dei singoli soggetti, e i Crotonesi sapessero sempre chi ringraziare per quanto avverrà in futuro in rapporto a quello, ho spedito al MiBACT un breve report che ho anche pubblicato in rete sulla mia pagina di Academia.edu, accanto agli articoli di ricerca storica e archeologica.
Fallito anche il tentativo di scongiurare il deprezzamento delle mura bizantine di Corso Vittorio Emanuele, ho rievocato la loro storia edilizia fino all’attualità, fino al danno subito grazie al progetto comunale ArkeoUrbe, in un articolo per una rivista scientifica disposta ad accoglierlo e che stava per essere pubblicata, in modo che tra i colleghi si avesse contezza dell’accaduto in tempo reale. A nome di “Sette Soli” ho inoltre sollecitato più volte la Direzione e il Segretariato Generale ad occuparsi del completamento del progetto in corso nel parco di Capo Colonna senza rinunciare agli interventi previsti o stravolgerli, com’è spesso accaduto. Nel contempo, ho cominciato a leggere quanto disponibile sulla vicenda di Scifo.
Non me ne ero mai occupata prima, prevalendo, in quel caso, i valori culturali in senso lato (paesaggistici, ambientali, storici, architettonici) sugli aspetti strettamente archeologici. Ho dubitato a lungo di poter contribuire alla causa di quanti ancora speravano di poter fermare lo scempio di quel lembo intatto della costa sud di Capo Colonna. Una concomitanza di fattori mi ha però convinta a tentare il possibile: oltre ai documenti acquisiti personalmente a Roma, un accesso agli atti del Movimento 5 Stelle ha fatto uscire dal Comune (ente attuatore), a fine anno, la messe dei documenti del decennio 2006–2016 relativi a quella lottizzazione.
Così, poiché nel dubbio, è stato detto giustamente, occorre sempre fare quello che si deve, una volta accertata l’avvenuta ripresa dei lavori (dicembre 2016), questa volta destinati a concludersi con la realizzazione della mega-piscina, del ristorante e dei 79 bungalow previsti, ho passato il periodo natalizio china sulle carte, a scrivere un report per il Ministero, primo destinatario delle mie richieste di presa di coscienza e intervento a difesa, ancora una volta, dei valori e dei contenuti dell’Art. 9. Il testo semplicemente metteva in fila un decennio di atti e interventi legati al presunto campeggio/agriturismo che ad arte si faceva ricadere in loc. Alfieri, fuori dall’area vincolata fin dal 1968. Anch’esso è pubblicato, dal 4 gennaio 2017, su Academia.edu.
Era indispensabile innanzi tutto per me, una siffatta disamina, per avere un quadro esaustivo dei passaggi burocratici e degli accadimenti, ma era altrettanto indispensabile realizzarla per sperare che, trasmessa ai tanti soggetti, singoli e associati, sensibili a questioni ambientali e culturali in genere, quelli si prendessero la briga di prestare attenzione al problema di Scifo e provassero, a loro volta, a sollevarlo facendone un caso nazionale.
Così è stato, per fortuna, e tra le altre iniziative merita ricordare la clamorosa provocazione dell’On. Pippo Civati, segretario di Possibile, che invitò il Ministro a Capo Colonna per affrontare insieme, finalmente, il tema dell’imminente cementificazione di Scifo. Mantenendo fede all’impegno preso, Civati venne in loco di persona, pur snobbato dal suo interlocutore. Anche Giulio Cavalli, in quei giorni difficili in cui la bilancia non pendeva ancora nettamente dalla parte della legalità, si schierò senza mezzi termini a favore di quest’ultima, esponendosi personalmente com’è suo costume con una dura replica alle insinuazioni della Proprietà .
Nessuno, infine, tra quanti hanno a cuore le sorti del nostro territorio, così ricco di storia e memorie delle origini da civiltà occidentale, è mancato all’appello, né la Procura della Repubblica è rimasta sorda alle tante voci di dissenso e alle denunce (tra le quali una mia e di Linda Monte) che nell’occasione si sono levate, con l’esito felice di metà febbraio 2017 che tutti conoscono. Moltissimi cittadini, infatti, oltre ai pochi soggetti politici sensibili ai problemi di Capo Colonna, hanno dato anch’essi il proprio contributo, il proprio esplicito appoggio morale, nell’occasione, alla causa comune.
In tutto ciò, il Soprintendente Pagano è riuscito ad avere un ruolo importante, nonostante fosse arrivato da pochi mesi. In uno degli atti ‘romani’ lessi la sua affermazione “I bungalow sono ormai stati realizzati”. Ho ritenuto doveroso segnalarla a chi di competenza, sia al Ministero sia in sede giudiziaria. La stessa frase tornava nella relazione al Direttore Generale che il dirigente napoletano scrisse più tardi, sollecitato a fornire informazioni in vista della risposta di Franceschini ad un’interrogazione parlamentare. La Procura lo ha inchiodato per quella.
Nel vortice di eventi che è seguito, la Direzione Generale del Ministero ha avocato a sé la competenza su Scifo sottraendola al Pagano, e affidandola ad altro dirigente: uno smacco che evidentemente non è stato gradito dal Soprintendente, a fine indagini rinviato a giudizio proprio per falso ideologico.
Non ha gradito neppure l’intervista a sorpresa delle Iene, che sentirono anche me, denunciate per diffamazione grave al Tribunale di Torre Annunziata. La stessa cosa avrebbe fatto nei miei confronti, a leggere la nota interna del 7 agosto 2017 dove, sulla base di quella denuncia, ordina a tutto il suo personale di impedirmi di lavorare, dicendomi incompatibile con ogni attività svolta o monitorata dalla sua Soprintendenza.
Il carattere ritorsivo della disposizione citata è palese; la sua illegittimità è certa sulla base dall’Art. 80 del Codice degli Appalti, che identifica con precisione le cause, poche e gravissime, che consentono l’esclusione di una ditta dalla possibilità di ricevere incarichi dalla pubblica amministrazione.
Se in questo Paese la legalità è ancora di casa, ciò non potrà che ritorcersi contro colui che ha pensato di risolvere il problema di un ‘cittadino portatore di fastidi’ abusando del proprio potere nell’ambito professionale che, sia pure con ruoli e posizioni diverse, li occupa entrambi. Anche in questa occasione, Possibile è tra quanti non hanno fatto mancare il loro appoggio a me personalmente e a quell’idea di impegno civico che, colpendo me, si intendeva esemplarmente screditare.
Avrei dovuto, fin dall’inizio, agire diversamente?
Nei “Demoni”, capolavoro assoluto d Dostoevskij, ad un certo punto viene menzionata al principe Stavrogin una frase da lui pronunciata in passato: “Bisogna essere davvero un grand’uomo per saper resistere anche al buon senso”. Il principe, che non ricorda di averla detta, saggiamente commenta: “Oppure un imbecille!”. Ecco, le possibilità sono due, non so decidere quale mi rappresenti meglio ma so di avere agito come dovevo.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]