Alessandria, sabato 4 febbraio 2017. Da settimane abbiamo programmato una visita all’interno delle due carceri cittadine, la casa di reclusione San Michele e la casa circondariale Cantiello Gaeta. È un mattino gelido e grigio, arrivo al casello di Alessandria ovest e trovo ad accogliermi i compagni del Comitato “Macchiarossa” di Possibile: Daniele Iglina, Arianna Di Saverio, Alessandro Rota, Davide Serafin e insieme a loro il segretario regionale della UIL Polizia Penitenziaria, Salvatore Carbone, col quale abbiamo organizzato le due visite del mattino e l’incontro pubblico del pomeriggio.
Il primo istituto, a pochissimi chilometri dall’autostrada, fuori città, è una scatola incolore di cemento armato: il freddo che si percepisce da fuori è lo stesso che si incontra dentro, nei pavimenti grigi, nei muri di un bianco malato aggredito dall’umidità, nel metallo delle grate, delle sbarre, dei serramenti, dei chiavistelli. Ci eravamo preparati a queste visite con meticolosità: l’art. 67 dell’ordinamento penitenziario (Legge 26 luglio 1975 n. 354) consente ai parlamentari (e ad altri soggetti istituzionali tassativamente indicati) di visitare senza autorizzazione i luoghi di detenzione, anche accompagnati da persone che coadiuvano il deputato in ragione del proprio ruolo. La norma è chiara (o, almeno, chiara e inequivocabile sembrerebbe): “L’autorizzazione non occorre nemmeno per coloro che accompagnano le persone di cui al comma precedente (parlamentari, n.d.r.) per ragioni del loro ufficio.”
Alla luce della norma e non senza chiedere precise indicazioni alla stessa direzione del carcere, noi avevamo graziosamente comunicato il giorno, l’ora e i dati identificativi di chi mi accompagnava e ci era stato detto che era tutto a posto. Giunti al San Michele, invece, abbiamo dovuto registrare l’assenza del direttore del carcere, che aveva delegato ad “accoglierci” un vicecomandante della polizia penitenziaria, coadiuvato dal responsabile degli educatori. Ci sono stati somministrati moduli in cui avremmo dovuto dichiarare che ognuno dei miei accompagnatori “presta nei miei confronti una collaborazione diretta, professionale, stabile e continuativa”: tutti requisiti evidentemente restrittivi e impossibili da integrare (in pratica, secondo quel modulo, avrei potuto accedere al carcere solo accompagnato dalla mia assistente parlamentare), previsti da una circolare ministeriale che, pur avendo una funzione meramente interpretativa e ricognitiva delle norme di rango primario che discendono dalla legge e che sono improntate al principio dell’apertura all’esterno delle mura (fisiche, giuridiche e simboliche) del carcere, pretende di circoscrivere e limitare la portata e lo spirito della legge.
Per massima trasparenza e correttezza, e per evitare di dichiarare (firmando un modulo prestampato) cose anche solo parzialmente non corrispondenti al vero, ho specificato per iscritto che “gli odierni accompagnatori collaborano col partito di mia appartenenza sul tema della giustizia o in quanto membri del locale comitato o in quanto relatori al convegno odierno”.
Dopo un estenuante braccio di ferro sul l’interpretazione delle norme sono potuto accedere al carcere accompagnato dal sindacalista, autorizzato verbalmente solo dopo l’intervento del provveditore regionale. Condotta antisindacale? Ostilità ad personam? Approfondiremo, intanto continuiamo il racconto.
Al San Michele le celle sono piccole, c’è posto solo per due letti e una latrina. Per almeno otto ore al giorno le celle restano aperte e i detenuti possono percorrere in lungo e in largo il corridoio, “sorvegliati dinamicamente” da un solo agente disarmato. Effetti della sentenza Torreggiani, con cui la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, per le condizioni delle carceri italiane che ledono la dignità degli esseri umani rinchiusi. Quindi celle aperte (perché di costruire carceri nuove con spazi adeguati non se ne parla), agenti (sempre drammaticamente sotto organico e male equipaggiati) lasciati soli con 50 detenuti ciascuno su cui vigilare, un altro agente che sorveglia due schermi con una quarantina di telecamere che riprendono altrettanti luoghi (ma non basterebbero venti occhi per visionare adeguatamente quelle immagini), accessi meccanizzati ma senza bracci elettrici funzionanti e quindi chiavi su chiavi su chiavi ad aprire e chiudere continuamente sbarre e serrature.
Noi di Possibile, quando parliamo di esseri umani rinchiusi non ci riferiamo solo ai detenuti ma anche ai “diversamente detenuti” cioè a tutti coloro che trascorrono almeno otto ore consecutive là dentro per lavoro (agenti di polizia penitenziaria, educatori, personale sanitario…). Alla polizia penitenziaria l’Amministrazione non da divise nuove da sei anni: c’è chi si arrangia coi rammendi e chi non si può permettere di ingrassare sennò non ci entra più dentro. Dagli anni ’90 non si indicono più concorsi per direttori dei penitenziari e c’è chi diventa direttore dopo avere impropriamente svolto mansioni superiori per anni.
C’è una vera e propria emergenza per il rispetto del diritto alla salute dei detenuti: uno di loro, affetto da neoplasia polmonare, sta implorando da mesi di essere ricoverato e operato. Troppi detenuti sono tossicodipendenti o assumono psicofarmaci per sopravvivere.
Dal San Michele ci trasferiamo poi nel carcere storico della città, ricavato da un ex convento, il Cantiello Gaeta, dal nome di due agenti rimasti uccisi durante la rivolta del 1974. La struttura è a raggiera, con un corpo centrale e bracci che su tre piani ospitano le diverse sezioni del carcere. Struttura vecchia ma con un’anima, celle molto più ampie e anche un teatro di rara bellezza sotto la cupola centrale. Qui, anche se la legge è la stessa e la maledetta circolare anche, veniamo accolti tutti, nessuno escluso e a braccia aperte. Arcani della burocrazia.
Alle 16 ci trasferiamo in un bellissimo spazio della comunità di Don Gallo per l’incontro pubblico organizzato da Possibile. La sala è piena, ci sono rappresentanti di associazioni, agenti di polizia penitenziaria, cittadini: raccontiamo ciò che abbiamo visto, quello che non va, quello che c’è da fare. Domande, riflessioni, richieste di aiuto sembra che non finiscano mai: si ragiona sull’utopia abolizionista del sistema carcerario e sulle possibili alternative, sull’amnistia, su una visione laica e non paternalistica della pena, sui disastri del proibizionismo in materia di stupefacenti, sulla bellezza di Costituzione e legislazione penitenziaria italiana e sulla parallela inadeguatezza dell’organizzazione e dell’amministrazione in questo delicato e fondamentale segmento del pianeta giustizia. Ci prendiamo l’impegno di raccogliere dati e informazioni e di costruire, sinergicamente, almeno un paio di interrogazioni da rivolgere al Ministro.
Migliorare la qualità del lavoro degli operatori per migliorare la qualità della vita delle persone private della libertà personale. Perché il carcere diventi occasione di vera e possibile risocializzazione, di recupero della dignità attraverso lo studio e il lavoro. Perché il carcere cessi di essere una discarica sociale per gli ultimi e i disgraziati, un incubatoio di nuova criminalità e di recidiva, un buco nero nella comunità dei cittadini e delle persone.