Uno degli argomenti in top trend degli ultimi giorni è come riaprire i centri educativi per l’infanzia. Si parla, anche nelle ultime misure normative, di entrate scaglionate e di piccoli gruppi: numero massimo di bambini per educatore, triage all’entrata con disinfettante e scanner per la temperatura. Spazi che diventano arcipelaghi con isole circondate dal mare della distanza sociale. L’ossimoro della negazione della socialità negli spazi e nei tempi educativi dimostra in partenza la criticità di ogni proposta sul tema. A parte l’ovvia considerazione sulla fattibilità utopistica di queste soluzioni, quante educatrici ci vorrebbero? Quanti metri quadrati per spazio? Quali ambienti? Quali controlli? È forse il caso di fermarci a fare una riflessione di principio. In questo periodo di stato di emergenza potrebbe sembrare superfluo parlare di “principi”, di “diritti”, finanche di Costituzione, perché con la salute a rischio e l’economia in crisi tutto passa in secondo piano. D’altronde, è proprio quando si comincia a percepire che potrebbe sembrare superfluo che diventa necessario parlarne per riaffermarli, anche se ovvi, anche se scontati, perché si sa, niente è più accantonabile di una cosa ovvia. Dare per scontato, di solito, conduce alla dimenticanza e, infine, a una perdita. E quando si perde un diritto, si intacca un principio, si perde qualcosa come società. Il nido d’infanzia, come istituzione, ha fatto passi da gigante dalla vecchia Onmi in direzione dell’affermazione della sua funzione pedagogico educativa e in tutte le proposte sul tavolo vedo solo un riaffermarsi della esclusiva funzione assistenzialistica. Siamo certi che queste scelte “estive” stiano a significare che stiamo pensando ai bambini? Che ci stiamo occupando di loro? A me pare che questo tema non venga affrontato dal loro punto di vista, mettendoli al centro, ma, come sempre, dal punto di vista degli adulti e, in particolare, degli adulti lavoratori. Quindi dal punto di vista economico. Su twitter e in generale sui media leggo articoli e commenti di preoccupazione per i genitori che non sanno dove “mettere i figli”, si pensa alla riapertura delle scuole e dei nidi in funzione socio economica. Preoccupazioni giuste, ci mancherebbe.
Ma la funzione educativa? E i bisogni dei bambini? Forse sarebbe il caso di coinvolgere le educatrici nella progettazione della riapertura, in quanto sono le sole ad avere la consapevolezza, derivata dalla pratica quotidiana, delle criticità presenti nei rispettivi servizi educativi. Per fare un esempio su tutti: si è pensato alla necessità di un nuovo periodo di inserimento dei bambini? Si parla della riapertura a giugno dopo tre mesi di lontananza e non si sottolinea il bisogno dei piccoli di un nuovo ambientamento. Questo significa che il mese di giugno sarebbe necessario solo a questo fine, con uno dei genitori in presenza, con una frequenza limitata ad un’ora destinata ad allungarsi piano piano secondo le risposte dei bambini. Ogni genitore che ha avuto l’esperienza del nido sa benissimo di cosa stia parlando e di quanto siano impegnative quelle due o tre settimane richieste per l’ambientamento dove si organizzano con ferie e permessi proprio per poter essere presenti ed aiutare i loro bambini in questo momento delicato e fondamentale. Mi sembra ovvio che se si seguissero queste “buone pratiche” consolidate da anni di esperienza pedagogica sul campo e condivise dalle famiglie nell’ottica di un’alleanza educativa, parlare di apertura dei nidi d’infanzia a giugno perde di significato.
Pensare ai bambini non significa solo occuparci di loro in questo momento, cercando tutti insieme la formula migliore per rispondere ai bisogni familiari emergenti in questo periodo, ma prenderci cura di loro anche in futuro, del loro futuro. Difendere il loro diritto ad un’educazione. Difendere il principio della funzione educativa e pedagogica del nido d’infanzia, quindi, significa prendersi cura di loro, delle loro famiglie, della nostra società. Dire che queste modalità emergenziali non sono il “loro nido” è essere dalla loro parte. Non ho la ricetta giusta e comprendo la difficoltà di trovarla così come la necessità di cercarla e mi piacerebbe, ci piacerebbe “cercarla insieme”. Soprattutto in vista della necessaria e sentita riapertura dei servizi per settembre, una progettazione delicata e complessa che va organizzata fin d’ora cercando il più possibile di rispondere ai bisogni educativi dei nostri piccoli. Avrei però una richiesta per i giornalisti e gli esperti che vengono chiamati a raccolta. Quando parlate di tutte queste proposte “estive” vi pregherei di chiamarle con un altro nome. Non parlate di nido d’infanzia per il semplice motivo che non ne state davvero parlando. Potrebbe sembrare una questione di forma, ma come spesso accade, si tratta di una forma sostanziale. Si tratta dell’affermazione e la tutela di un principio. Il nido è un luogo educativo spazio temporale dove la strutturazione degli ambienti fa parte del progetto educativo, così come la progettazione delle routine. Senza questi elementi è qualcos’altro. Possiamo metterci d’accordo. In realtà una parola già esiste che potrebbe definire nel modo giusto quello che dalle proposte finora lette si sta cercando di aprire: baby parking. Parcheggio di bambini. Credo sia doveroso essere chiari su questo punto, proprio per mettere quei tasselli che ci permetteranno, una volta finita l’emergenza, di far passare la fune e risalire la vetta. Altrimenti il rischio è quello di restare dentro la voragine e rendere “normale” o “normato” scelte dettate da una necessità emergenziale. Raccontiamo la verità e così possiamo trovare insieme la soluzione più giusta. Ma vi prego, non chiamatelo nido.
Paola Boggi