[vc_row][vc_column][vc_column_text]
Noi non crediamo nell’Unione europea, crediamo nell’Ungheria, e consideriamo l’Unione Europea da un punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora quel qualcosa in cui crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto.
Parole, ovviamente, di Viktor Mihály Orbán, primo ministro ungherese dal 2010, dopo esserlo stato dal 1998 al 2002, l’uomo forte che viene dall’est e che dell’affossare l’Unione europea ne ha fatta una vera e propria missione, tanto che queste parole furono pronunciate in tempi non sospetti: era il 2011, mentre Matteo Salvini pensava ancora alla secessione della Padania.
Dopo una giovanile infatuazione per il comunismo e dopo una borsa di studio finanziata dal suo attuale e acerrimo nemico George Soros (ritenuto responsabile di un piano per la sostituzione etnica degli europei che tanto ricorda gli infami protocolli dei savi di Sion), la visione politica di Orbán ha preso una piega sempre più a destra: nazionalismo, centralità della famiglia, esaltazione della tradizione (anche religiosa) in chiave conservatrice, difesa dei confini sono state le parole d’ordine che hanno consolidato l’asse con la Russia di Vladimir Putin e col suo progetto di creare una nuova cortina di ferro che divida l’Europa.
Un asse che sta giocando tutte le carte a sua disposizione con l’obiettivo citato all’inizio: affossare l’Unione europea. Le risposte di Orbán ai flussi migratori transitati sin dal 2015 lungo la rotta balcanica ne danno una rappresentazione perfetta: costruzione di un muro al confine con la Serbia (con innumerevoli denunce di respingimenti attuati con la forza) e rifiuto di qualsiasi piano di redistribuzione dei migranti. Proposte che collocano Orbán alla guida del cosiddetto “gruppo di Visegrad”, insieme a Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia.
La risposta di Visegrad ai flussi migratori è il “no way” australiano che nei giorni scorsi Salvini ha imparato a pronunciare. In parole povere: siamo padroni dei nostri confini e rivendichiamo il diritto di respingere tutti i migranti, senza perciò aver alcun interesse per la condivisione europea della materia. Per queste ragioni Orbán è arrivato a rifiutare il piano di “relocation” europeo che avrebbe permesso di ricollocare alcuni rifugiati presenti in Ungheria verso altri paesi: «non ne vogliamo sapere, non vogliamo solidarietà e non vogliamo dover sottostare a nessun obbligo», la risposta neofascista di chi si pone al di sopra delle regole comuni che la comunità internazionale si è data.
Matteo Salvini non poteva che infatuarsene: entrare nell’orbita di Visegrad, col sostegno russo, per poter abbaiare il suo “no way” anche in Italia. In spregio alla Costituzione, in spregio alla legge, in spregio alle convenzioni internazionali (non è un caso che stia cominciando a proporre di modificare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati). Una strategia che, oltre a essere disumana e illegale, è solo un’illusione per un paese come l’Italia, proiettata nel Mediterraneo. Una strategia che, inoltre, ci collocherebbe automaticamente nell’alveo di quei paesi a democrazia debole. Come fa notare Bloomberg, Orbán e Putin non sono la stessa persona e non utilizzano gli stessi metodi per governare il paese: «è importante distinguere nettamente tra un governo che persegue legittimamente politiche illiberali e spesso nocive e un altro che è fondamentalmente illegittimo, repressivo e pericoloso per i suoi cittadini, che se ne rendano conto o no». Ecco quel che affascina Matteo Salvini.
Ma ci sarà un giudice, tanto in Italia quanto in Europa, perché il sistema di garanzie costituzionali che i nostri padri e le nostre madri hanno costruito è solido e non permette strappi da parte del primo mitomane che passa per gli scranni del governo.
Il nostro “no way” è per Orbán e Salvini, questo pomeriggio a Milano.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]