[vc_row][vc_column][vc_column_text]Il principio PPP, Polluter pay principle, è una chimera se valutato in un quadro generale dove il più furbo ha sempre la meglio. Qualsiasi nuova struttura fiscale che sia orientata a tale criterio deve confrontarsi con un contesto ove le multinazionali applicano scientemente profit shifting e altre strategie elusive, senza il benché minimo contrasto da parte dei governi nazionali. In Italia, inoltre, l’insieme delle ‘tasse ambientali’ è fortemente squilibrato in quanto non premia chi inquina poco e non colpisce in misura adeguata chi inquina molto. Secondo uno studio del Senato, nel 2013 le famiglie hanno pagato il 70% in più rispetto ai danni creati, le imprese il 26% in meno. Il record degli sconti, 93%, va all’agricoltura.
Il ruolo predominante lo rivestono le accise che però, solo quando sono applicate ai carburanti e ai veicoli «possono teoricamente costituire uno strumento per l’attuazione del principio ‘Chi inquina paga’», mentre l’accisa sull’energia elettrica e gli oneri di sistema «non rappresentano più tale principio, ma piuttosto quello del “consumatore paga” (“User pays”), in quanto non è direttamente lui a produrre l’inquinamento» (Andrea Molocchi, UVI — Ufficio Valutazione Impatto, Senato della Repubblica, Dicembre 2017).
Almeno quattro settori dell’economia, tra i 64 esaminati dallo studio, risultano colpiti dalla tassazione in maniera del tutto marginale rispetto ai costi ambientali generati e scaricati sulla collettività: trasporto marittimo, 1%; trasporto aereo, 6%; agricoltura, 6,6%; elettricità e gas, 16,9%. Allo stesso tempo, il settore manifatturiero, che rispetto ad altri è tassato in modo coerente con il principio PPP, mostra una forte sperequazione fiscale al suo interno, ovvero fra le sue differenti branche: sono quattro i settori che pagano molto meno di quanto dovrebbero e sono coke e raffinazione; vetro, ceramica, cemento e altri minerali; metallurgia; industria della carta.
Nel complesso, le tasse ambientali valgono 50 miliardi di euro l’anno, una discreta somma, pensereste. Peccato che il gettito raccolto non abbia una destinazione congrua rispetto al principio che lo genera. L’ISTAT attesta che solo l’1% circa del gettito delle imposte ambientali è destinato a finanziare spese per la protezione dell’ambiente. Del resto non v’è certezza: nessuno sinora ha effettivamente mappato la destinazione effettiva di questi denari. Entrano nel calderone del gettito complessivo, e basta. Tanto più che spesso, per far cassa velocemente, i governi ritoccano le accise sui carburanti: avviene sistematicamente in seguito a eventi calamitosi, anche di natura atmosferica. Il paradosso è chiaro, la leva della tassazione ambientale non viene usata per prevenire bensì esclusivamente per pagare i danni dell’emergenza climatica.
L’apice della schizofrenia si raggiunge però con l’abbinamento di tassazione insufficiente e sussidi statali. Secondo il rapporto Phase-out 2020 — Monitoring Europe’s fossil fuel subsidies (settembre 2017), i sussidi dei governi europei sono destinati in maniera sproporzionata ai prodotti energetici di origine fossile. La maggior parte di essi è indirizzata al settore dei trasporti (il 44% del totale). Secondo lo studio di Molocchi, «oltre il 97% dei sussidi dannosi per l’ambiente (SAD) è costituito da sconti fiscali, molti dei quali sono erogati anche a beneficio delle attività più inquinanti». Settori come il trasporto aereo, il trasporto marittimo, la pesca, la raffinazione, l’agricoltura e l’allevamento, che presentano costi ambientali relativamente alti, ricevono volumi altissimi di sussidi.
La domanda di equità e di giustizia climatica dovrebbe quindi investire in primo luogo il modo con cui si definiscono le regole della tassazione ambientale, la destinazione del suo gettito e l’uso della leva di sussidi e incentivi per orientare la scelta del mercato verso un modello ‘carbon zero’. Ma la cornice di un sistema fiscale regressivo negli effetti, che rinuncia al recupero del mancato gettito, che tollera un’evasione altissima, non è un buon biglietto da visita e rischia di essere il principale ambito di riproduzione delle disuguaglianze sul quale si inseriranno i fattori di rischio dell’emergenza climatica. [/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]