di Federica Formato
Svegliarsi nel Regno Unito in questi giorni è un’esperienza allo stesso tempo anacronistica e storica. Per molte persone è un’esperienza nuova: razionamento della benzina e adattamento di scelta di prodotti al supermercato.
È tutto vero quello che probabilmente si trasmette nei telegiornali italiani: lunghe file alle stazioni di benzina, scaffali vuoti ai supermercati e anche l’approccio alla risoluzione del problema (solo in via temporanea). Mi affaccio alle notizie di questa mattina sulla BBC e su The Guardian, apro gli articoli sulla mancanza di benzina: la BBC nomina Brexit solo due volte accompagnandolo ad altre cause (es. Il covid), il The Guardian, sei, senza altri se e altri ma. A chi vive nel Regno Unito da prima del 23 giugno 2016, la causa è chiara. Brexit ha cambiato per sempre non solo l’economia del paese ma anche lo sguardo interno ed esterno.
Da dentro, Brexit è un incubo: in primis, la paura di non essere in regola con i documenti, ad esempio la scelta del governo di non fornire un documento fisico a chi ha ottenuto il settled status. E poi tutto quello ne è scaturito, persone che sono andate via perché non si riconoscevano in un paese che, in passato, aveva offerto loro delle opportunità lavorative e una società, all’apparenza, più aperta. Se ne sono andate le persone che avevano posizioni nelle università, ma anche chi aveva aperto una piccola impresa di idraulica o edilizia. E sicuramente sono andati via, come dicono i dati, il 50% di chi guida i camion, che ad oggi, è la causa della scarsità o carenza di prodotti. Ma non è una situazione di oggi, e neanche di ieri. All’inizio di settembre abbiamo ricevuto un messaggio dai medici di base che prospettavano tempi lunghi per le analisi del sangue perché manca(va)no le provette per la raccolta dei campioni, un’altra conseguenza di Brexit.
Negli anni che si sono succeduti al 2016, ho iniziato a notare un modo di vedere l’immigrazione al quale non avevo mai pensato. Tutto è iniziato da un comico, Russell Howard, che in uno dei suoi programmi accusava chi aveva votato LEAVE (nel referendum sull’uscita dal Regno Unito) di non aver tenuto in considerazione che l’immigrazione serviva (but we need immigrants!). Quel verbo “to need”, tra le risate pre-covid del pubblico in studio, mi era risuonato come una bruttissima sveglia. L’argomento di fondo (così come percepito da me, immigrata nel Regno Unito) era che l’immigrazione non era la preferenza personale delle persone dello scegliere un posto in cui fiorire sul lavoro, crescere i propri sogni, ma era la necessità di qualcun altro. La necessità di avere persone che servono nei café e nei ristoranti, la necessità di avere personale infermieristico, la necessità di avere lavoratrici e lavoratori in diversi settori che si occupassero della sfera sociale del paese.
Oggi, si torna incessantemente a questo discorso: il governo sta pensando di introdurre visti di 3 mesi (con scadenza dopo le consegne di Natale) per convincere autist* di camion da trasporto a fare domanda per uno dei 5.000 posti mancanti o personale per le fabbriche alimentari (altri 5.500 posti). Si discute di un salario molto alto per chi farà domanda. Però poi a Natale (anzi dopo), si torna a casa, perché l’emergenza anche, se non sarà passata, avrà convinto chi supporta il governo. Un approccio che, superficialmente, chiamiamo pragmatismo, ma che rievoca altri scenari (uno su tutti il recente windrush scandal sull’immigrazione caraibica tra il 1948 e il 1971). Sembra che l’immigrazione non sia altro che un gioco con pedine, che la vita delle persone non sia che un servire lo stato, un’idea molto lontana dal suo opposto ideale, ovvero uno stato che serva la società.
Mentre sono sicura che si potrà fare a meno di benzina per qualche giorno (il benzinaio più vicino mi ha detto di riprovare lunedì o martedì), o dell’acqua sugli scaffali dei supermercati, o mangiare qualche verdura in meno per adesso, la situazione diventerà ancora più insostenibile per i diritti di chi lavora in questi settori e di conseguenza per l’intero paese, che, nel frattempo, raziona anche un dibattito profondo sull’impatto della Brexit.