Quando si parla di chiusura dei porti a persone in fuga mi torna sempre in mente la storia del transatlantico St. Louis. Era il 13 maggio 1939 quando salpò da Amburgo con a bordo 937 persone, di cui 930 rifugiati ebrei (principalmente tedeschi) in fuga dalle persecuzioni. Il transatlantico solcò il mare ma gli furono chiusi in faccia porti cubani, poi statunitensi e infine canadesi. Il St. Louis fu costretto a invertire la rotta e a fare ritorno in Europa: circa 250 rifugiati morirono a Auschwitz, Sobibor e in altri campi di internamento.
C’è un account Twitter che racconta le storie individuali di chi non è sopravvissuto. Ci sono fotografie che spiegano meglio di molte altre parole perché quel che stiamo facendo è sbagliato: nessuno può mettere in dubbio, in nessun caso, a nessuna condizione, il principio per cui le vite umane si salvano prima di ogni altra cosa. Al di là di qualsiasi normativa, dal diritto internazionale che impone di far sbarcare le persone salvate nel porto sicuro più vicino — proprio per evitare macabri rimpalli di responsabilità — ai protocolli operativi, non si manda nessuno a morire o a essere torturato, e nemmeno lo si lascia a soffrire per giorni in mare. E certo, ci sono i bambini, e sempre sia data precedenza ai bambini, ma gli stessi principi valgono a qualsiasi età.
Si fa fatica a trovare altre parole e a svolgere altri ragionamenti rispetto ai tanti fatti giusto un anno fa, su queste pagine, quando l’allora governo in carica utilizzava la medesima retorica proponendo la chiusura dei porti italiani e mentre chiudeva i porti di partenza, quelli libici. Sembra un’altra stagione, quella attuale, eppure se ci pensate è del tutto in continuità con quella precedente. La stagione degli accordi con la Libia, della minaccia di chiudere i porti, dello scontro con le Ong, delle migrazioni quale “pericolo per la tenuta democratica del paese”, delle interviste del procuratore Zuccaro: quella stagione ha preparato il terreno a quanto vediamo applicato ora, l’ha sdoganato, ne ha creato le fondamenta culturali e di pensiero.
Sembra incredibile rileggere ora la storia del St. Louis. Eppure è successo. Sembra incredibile che ci siano state deportazioni verso i campi di sterminio a causa di delazioni del proprio vicino di casa. Eppure è successo. Sembra incredibile che sia avvenuto uno sterminio di massa e organizzato, senza scatenare una ribellione diffusa prima che lo sterminio fosse computo. Eppure è successo. Sembra incredibile che persone respinte lungo i nostri valichi alpini siano passate dalle carceri delle nostre città, dalla stazione Centrale di Milano, e poi mandate a morire. Eppure è successo.
E’ successo perché le coscienze si assopiscono lentamente, passo dopo passo. Si assopiscono grazie allo svuotamento delle parole: «non possiamo accogliere tutta l’Africa» — come se ci fosse davvero in movimento tutta l’Africa. «Aiutiamoli a casa loro» — come se ci fossero case nostre e case loro e la terra non fosse sferica e le migrazioni non fossero un elemento costitutivo dell’essere umani.
«Non c’è spazio per tutti, non li possiamo prendere, sono ebrei». Me le immagino le parole autogiustificative tra chi ha preso e tra chi ha accettato la decisione di respingere il St. Louis. Me le immagino ora ripetute da Matteo Salvini e Danilo Toninelli, magari ai loro figli: «non possiamo accoglierli tutti, sono troppi». E così ci addormentiamo, giustifichiamo detenzione, tortura, omicidi, stupri al di là del Mediterraneo. Riusciamo a tollerare che qualcuno sia stuprato o venduto come schiavo in nome della sicurezza. In nome della stessa sicurezza stiamo costruendo un mondo estremamente violento e in cui, soprattutto, la violenza diventa contesto: siamo immersi nella violenza e nemmeno ce ne accorgiamo. Qualcuno vi giudicherà e speriamo che a farlo siano esattamente i vostri figli.