[vc_row][vc_column][vc_column_text]Giuseppe Civati aveva consigliato, prima di altri, la lettura del libro di Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, come base culturale da cui partire per scrivere un nuovo progetto per l’Italia. Poi la stessa Fana ha inteso polemizzare con Civati su Twitter dichiarandosi delusa dalle proposte di Possibile.
Alla fine del suo libro lei segnala cinque punti fondamentali, che elenchiamo qui di seguito con le nostre osservazioni. Giudicherà il lettore se vi sono motivi per una polemica o piuttosto per una collaborazione.
«Ricominciare a parlare di subordinazione».
Siamo per la riduzione delle forme contrattuali, per l’introduzione di un vero contratto unico con un breve periodo di prova, alla fine del quale ci sia l’articolo 18 (come scrivevano Boeri e Garibaldi, nella proposta originaria). Ed abbiamo scritto a chiare lettere che nella disciplina della collaborazioni coordinate e continuative, deve essere reinserito, in caso di etero-organizzazione, la presunzione assoluta di subordinazione fin dalla stipula del contratto, con la riqualificazione del collaboratore come lavoratore dipendente.
«Non è possibile ammettere che i contratti a termine vengano usati senza alcuna ragione tecnica e produttiva, ma soltanto per abbattere il costo del lavoro».
Abbiamo contestato le scelte di Poletti che hanno aumentato proroghe e tolto le causali. Il lavoro a termine deve essere motivato e più costoso del lavoro a tempo indeterminato, come si sosteneva prima che la stagione del Jobs Act imponesse altre scelte. Va da sé che l’adozione del Contratto Unico comporterebbe la cancellazione del contratto a tempo determinato. E per quanto riguarda il lavoro in somministrazione, oggi la forma prevalente nella dinamica delle attivazioni contrattuali, deve essere opportunamente limitato.
«Porre fine al sistema di defiscalizzazione degli straordinari e al loro assoggettamento ai premi di produttività».
Siamo d’accordo anche su questo e nel programma di Liberi E Uguali ci saranno note e impegni precisi.
«Lavorare tutti ma lavorare meno a parità di salario».
È una proposta da rivedere alla luce del contesto che si andrà definendo con la progressiva automazione dei processi produttivi e il ricorso a sistemi di intelligenza artificiale e sempre meno al lavoro. Le 35 ore erano il cavallo di battaglia di Bertinotti nel 1997. L’attuale mercato del lavoro, ridotto in frantumi da una precarizzazione feroce, consiste in molti casi di rapporti di prestazione d’opera intermittenti, di qualche giorno, di qualche ora. Non vi è certezza che la riduzione d’orario per i lavoratori cosiddetti insiders non liberi altro spazio per nuova precarietà. Tuttavia, il dibattito circa il bilanciamento fra lavoro e tempo libero merita certamente il suo spazio.
«Puntare a introdurre una volta per tutte un salario minimo per legge».
Ne parliamo da tempo: non un salario minimo qualsiasi ma uno che riferisca ai minimi retributivi previsti dai CCNL e comunque non sia inferiore ad una soglia (nazionale o regionale) comune a tutti. Non essendo immune da rischi — se scritto male, può generare lavoro nero, disoccupazione, inflazione — occorre che sia adeguatamente indicizzato alla produttività. Soprattutto, non può essere usato per scalzare la contrattazione collettiva in funzione di un modello di relazioni industriali demandato alle singole aziende.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]