Parlare di ambiente ed ecologia, di città e sostenibilità per un esponente della sinistra italiana significa cominciare col fare autocritica. Se non personale, date le differenti responsabilità, almeno di classe dirigente: per molto tempo le parole d’ordine della produzione e della deregulation hanno messo in un angolo le esigenze avanzate che nei Paesi occidentali hanno cominciato ad affermarsi già dagli anni Ottanta. E pur in assenza di una politica industriale vera, il modello di sviluppo che veniva venduto ‑come sempre- “senza alternative” ha provocato il consumo scriteriato degli spazi, una cementificazione selvaggia, capannoni poi abbandonati, inquinamento crescente delle falde acquifere e del sottosuolo, rispetto marginale per le esigenze di armonia nei piani regolatori dell’edilizia, della viabilità e del commercio. Le buone pratiche irrise, le piste ciclabili considerate una concessione umanitaria, la pedonalizzazione demonizzata, scarsa cura al riciclo, differenziazione a macchia di leopardo. E ai congressi, alle manifestazioni, agli scioperi generali la sinistra istituzionale ha sempre opposto un intervento a piè di lista, di pochi minuti senza tracce nelle cronache, demandato spesso “al compagno che si occupa di ambiente”: una pacca sulla spalla, e tutto come prima.
Le spaventose cronache dell’ultimo periodo ‑prima su tutte, la vicenda della Terra dei Fuochi in Campania- hanno aperto uno squarcio nella realtà, gli occhi ai fondamentalisti dello sviluppo senza fine, e una prateria incontaminata a chi intende occuparsi dell’argomento da posizioni di governo: senza che possa essere considerato un corpus a se stante, quando invece informa l’intera gamma dei rapporti civici. Giuseppe Civati si candida a segretario del maggior partito di centrosinistra avanzando un progetto complessivo e integrato, che all’insegna della sostenibilità si spinge a prefigurare vere e proprie città possibili, dove i temi del paesaggio, della casa e delle periferie, della mobilità e dei trasporti, dei rifiuti da smaltire, dell’edilizia e delle aree dismesse costituiscono un’armonia progettuale dove il tutto vale più della somma delle parti, che simul stabunt aut simul cadent. Soprattutto, emerge finalmente la considerazione secondo la quale l’ecologia e i suoi effetti non sono più “una scocciatura” di cui preoccuparsi in corso d’opera, ma una fonte stessa di economia e benessere, con il presupposto che le risorse ‑sia naturali che finanziarie- non sono infinite ed è nell’interesse generale che la loro allocazione sia la più opportuna e orizzontale possibile.
Quando si fa riferimento all’ambiente come impresa è bene avere come riferimento singoli casi affermati. Come il “dizionario dei rifiuti”, una applicazione per smartphone che il 18enne Francesco Cucari ha lanciato da Rotondella, in Basilicata, e che ora facilita i cittadini nella raccolta differenziata. Ovvero la Dismeco di Marzabotto, in Emilia, che recupera gli scarti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE) fino ad essere leader mondiale nello smaltimento delle lavatrici, recuperandone fino al 98% dei componenti: è un’azienda costruita sopra un terreno dismesso, e praticamente autosufficiente sotto il profilo energetico, dando occupazione a quaranta addetti. Vanti nazionali, diffusi su tutto il territorio, di cui pochi sono a conoscenza: ma in tanti ormai sono dell’idea che occorra riqualificare gli edifici ‑sia pubblici, come scuole e ospedali, che privati- dal punto di vista dell’approvvigionamento di luce e calore, oltre che della messa in sicurezza rispetto ai terremoti che tragicamente sono tornati a interessare l’Italia. La casa, primo bene di una vita, può godere di una nuova centralità quando esalta i princìpi naturali, accoglie l’innovazione tecnologica e soprattutto rispetta le regole: mai più condoni edilizi, partire da ciò che c’è, tutelare le aree agricole.
Per ribaltare il paradigma serve una nuova legge quadro dell’urbanistica, essendo l’attuale promulgata nel lontano 1942, quando tutte le esigenze erano radicalmente diverse dalle attuali. Combattere l’abusivismo, dare un valore al terreno lasciato libero, rendere economicamente svantaggiosa la trasformazione ulteriore del suolo e stabilire in cinque anni la durata del diritto edificatorio, con riforma della fiscalità locale, senza che i Comuni vivano degli oneri di urbanizzazione: possono essere i paradigmi dai quali muovere per l’avvenire. Le esternalità vanno considerate nel solco di quanto la sinistra capace di amministrare le città aveva già mostrato nei decenni scorsi: progettazione di quartieri, dotazione di servizi per la cultura e l’infanzia, forte supporto all’invecchiamento della popolazione e avanguardia nell’accogliere le differenze di genere e di origine. La recente reviviscenza del concetto di bene comune è l’occasione per rilanciare quello di smart community, responsabilizzando non solo gli enti locali ‑sgravati dalla stretta eccessiva del patto di stabilità- ma i cittadini in primis, singolarmente e in forma associata. L’orizzonte è quello federale e sussidiario, il limite attuale sta nel valore abnorme delle rendite fondiarie, decisamente da rivedere e aggiornare.
Altrettanto fondamentale è l’inquadramento della mobilità in un contesto contemporaneo e con una visione lunga sul futuro: pianificare la posizione delle strade, dei mezzi di trasporto, privilegiare i parcheggi esterni o sotterranei, la rotaia anziché la gomma, favorire l’abitudine pedonale e ciclistica di stanziali e turisti, non sono scelte neutre. Una forza della sinistra europea come il PD deve considerare la città possibile nella dialettica quotidiana tra chi la amministra e chi la vive: perciò le basse emissioni, una cubatura diversa, il mantenimento del panorama così come ci è stato consegnato a pro delle venture generazioni, la prevenzione dei fenomeni atmosferici e dei cambiamenti climatici saranno il cardine delle politiche urbane. Cominciando col riportare la natura ad abitare i corsi d’acqua, i boschi e le dorsali montuose, primi pilastri per non sentir più parlare di frane, alluvioni, smottamenti e sismi. Il trasporto pubblico sia liberato dall’ingerenza della politica e dai continui tagli ai servizi (in corrispondenza di una campagna efficace contro chi non li paga), e vengano favoriti i sistemi meno inquinanti, come le metropolitane di superficie e i tram, nell’equilibrio da ritrovare sia dentro il bilancio che riguardo lo strapotere del mezzo privato a idrocarburi in via d’esaurimento. Non da ultimo, l’intervento a vantaggio dei lavoratori pendolari, tornando a investire nei treni di prossimità oggi falcidiati negli orari e nelle condizioni di viaggio, a vantaggio dei mezzi a lunga percorrenza: il da farsi è complesso e articolato, serve la verifica del consenso e del corso d’opera a ogni frangente e in tutti i livelli d’interesse, quello che con Barca abbiamo imparato a chiamare sperimentalismo democratico.