Il Ministro Orlando ritorna sul tema della giustizia per i richiedenti asilo, a suo dire caratterizzata da lungaggini e orpelli che rischiano di favorire ondate populiste e xenofobe.
Il richiedente asilo al quale la Commissione Territoriale abbia negato il riconoscimento dello status di rifugiato (in uno dei tre diversi livelli di protezione internazionale: asilo, protezione sussidiaria, protezione umanitaria) ha diritto, ovviamente, di impugnare la decisione negativa davanti al Tribunale del distretto di Corte d’Appello dove ha sede la Commissione, di partecipare ad un’udienza dove ha il diritto di essere sentito dal Giudice, di appellare l’eventuale sentenza negativa e di ricorrere in Cassazione contro l’eventuale sentenza negativa in grado di appello: non si tratta di un lusso, ma dei tre gradi di giudizio che la Costituzione riconosce come diritto fondamentale a tutti, senza discriminazioni, perché “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti” (art. 113 Costituzione).
Poiché dall’avvio della procedura (richiesta di protezione internazionale rivolta alla polizia di frontiera o alla questura) fino alla decisione definitiva passano anni, anni in cui il richiedente è in un limbo giuridico che non ne agevola la reale integrazione, il Ministro ha pensato bene di creare una giustizia ad hoc, ovviamente di “serie b”, trattandosi di cittadini di origine straniera.
Sì, perché rendere superflua l’udienza, acquisire la videoregistrazione dell’audizione del richiedente asilo davanti alla Commissione e togliere l’appello significa scrivere una pagina di apartheid giudiziaria, proprio sulla pelle dei più deboli, con una discriminazione istituzionale degna di periodi storici bui per i diritti umani.
La vera alternativa alle lungaggini processuali in realtà ci sarebbe, il ministro ce l’ha davanti agli occhi, ma finge di non vederla perché significa patteggiare con il ministro degli interni: il tappo sono le Commissioni, che sono poche e che invece dovrebbero essere attivate in ogni provincia, per gestire numeri più ridotti e quindi accettabili e sostenibili di domande.
Inoltre i ricorsi andrebbero incardinati nel tribunale della città dove il richiedente ha il domicilio, per non ingolfare i Tribunali delle città capoluogo di regione.
Misure di buon senso, a portata di mano che non comportano il sacrificio dei diritti fondamentali delle persone.
E tutto questo dovrebbe essere accompagnato da un sistema di accoglienza non figlio dell’emergenza ma della programmazione, del rigore e della serietà, asciugando le gestioni extra ordinem degli hub e dei centri di accoglienza improvvisati e riconducendo tutto nell’alveo virtuoso del Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati che ha dato ottima prova di sé. Gli ultimi dati disponibili descrivono, invece, un sistema ancora basato sulla gestione in emergenza, nonostante non ci sia alcuna emergenza. Dal primo gennaio al 29 settembre, infatti, sono sbarcati sulle nostre coste 132.044 migranti, contro i 131.841 nello stesso periodo del 2015 e i 138.674 nello stesso periodo nel 2014. Numeri assolutamente in linea, perciò, che configurano con sempre maggiore evidenza il carattere strutturale del fenomeno.
La configurazione del sistema di accoglienza restitituisce, in maniera evidente, una rappresentazione di come la gestione sia sostanzialmente basata su un approccio emergenziale: dei 159.473 cittadini stranieri che vi trovano ospitalità, addirittura 123.396 (77%) sono collocati in strutture temporanee e di emergenza, contro soli 22.192 (13,9%) posti nel sistema SPRAR. Un numero di posti, quelli del sistema SPRAR, di fatto stabile negli ultimi anni, a fronte di una vera e propria esplosione dei posti gestiti in emergenza. In questa sproporzione si insinuano potenziali sacche di reddito per chi dell’accoglienza vuole farne un business, dato che l’accoglienza straordinaria poggia su procedure e requisiti assolutamente meno stringenti dell’accoglienza tramite SPRAR. Qualcosa si sta cercando di fare per estendere la rete SPRAR, ma non è ancora abbastanza: molti altri sforzi sono da fare.
Piuttosto che sommare disuguaglianze a disuguaglianze, discriminazioni a discriminazioni (tra italiani e stranieri nell’accessoalla giustizia, ma anche tra stranieri stessi che ricevono servizi finalizzati all’inclusione non omogenei a seconda che trovino spazio o meno nello SPRAR), il governo concentri le proprie energie nella costruzione di un sistema di accoglienza organico, snello e rispettoso dei diritti.
Da parte nostra, continueremo a denunciare e a proporre soluzioni, come anche oggi con una mozione depositata alla Camera che chiede l’attivazione di ulteriori commissioni territoriali, il superamento della gestione in emergenza dell’accoglienza a favore del modello SPRAR e la chiusura del CARA di Mineo.
Andrea Maestri, Stefano Catone