Piombino, Palazzetto dello Sport, 6 novembre 2013. “Non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta”, recita uno degli striscioni affissi alle pareti. La lotta è quella per il lavoro. Il lavoro che nobilita l’uomo. L’uomo che un lavoro ce l’ha, naturalmente. Perché “un uomo che vuol lavorare e non trova lavoro”, invece – come scrisse Thomas Carlyle — “è forse lo spettacolo più triste che l’ineguaglianza della fortuna possa offrire sulla terra”.
E tuttavia non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta. E con le unghie e con i denti, aggrappandosi tenacemente alla dignità e al coraggio, lottano i lavoratori di Piombino, i lavoratori che vogliono continuare ad essere tali, mentre le macchine delle acciaierie sono ferme, la Lucchini è commissariata, e per quasi duemila persone si sgretola il presente e il futuro perde i pezzi.
Un altro striscione campeggia nel Palazzetto, appeso in più punti e ormai divenuto un vero e proprio simbolo cittadino, alla stregua del Rivellino e delle ciminiere delle industrie che si stagliano all’orizzonte: “Piombino non deve chiudere”, dice la scritta.
“Piombino non deve chiudere” gridano le mura e con esse gli occhi dei molti presenti, convenuti a sentir parlare Giuseppe Civati del lavoro-che-non-c’è.
Del resto è questo il senso vero della politica, l’unico che valga: dare ascolto a chi non ce l’ha, dialogare con i più deboli, essere al fianco di chi deve lottare perché sia mantenuto il diritto fondamentale previsto dall’articolo 1 della Costituzione, la carta della nostra Repubblica “fondata sul lavoro”.
“Mi impegnerò affinché il PD possa rappresentare in modo concreto le vostre istanze”, promette Civati, che sul suo taccuino personale riempie un’intera pagina di appunti durante l’appello accorato di Mirko Lami, responsabile Fiom per la siderurgia europea che parla a nome dei lavoratori di Piombino.
“Quel che è certo – aggiunge Civati — è che farò volantinaggio con voi, al vostro fianco”. “Dobbiamo riuscire a difenderci dalla multinazionali estere e da quelle italiane che investono all’estero”, prosegue”. “È una necessità quella di valorizzare le nostre eccellenze. Perché oltre a Piombino, è l’Italia a non dover chiudere”, ammonisce fra gli applausi.
Il dramma dell’industria siderurgica di Piombino è lo specchio di un’Italia che si avvicina pericolosamente agli scogli di una crisi economica sempre più pesante.
Una crisi che chiede alla politica di riportare al centro del dibattito proprio la questione del lavoro. Quel “lavoro” che è la parola più ricorrente della mozione di Giuseppe Civati.
“Dobbiamo tornare a ragionare come una collettività, cooperare tutti insieme, cittadini, parti sociali, istituzioni, per ridare dignità e speranza a questo paese”, dice Civati.
Questo è il ‘nuovo’ Partito Democratico che vorrebbe: “perché prima di rivolgerti a tutti, devi essere qualcuno”, spiega.
Manifesto programmatico decisamente interessante per un Pd in crisi di identità da tempo, al punto da convergere col PdL di Berlusconi in un governo dalle intese strettissime.
Civati raccoglie gli applausi di una Piombino ferita: ha una parola per tutti, promette vicinanza e sostegno.
La sfida della nuova politica, in fondo, riparte da qui. Alla ricerca del tempo perduto: quello del dialogo tra cittadini e istituzioni.
Nient’altro che questo, in fondo, è “il ritardo” di cui parla Civati.
E i macchinari spenti di Piombino, all’ombra di un cielo metallo, sono lì a ricordarcelo, ogni giorno che passa.