È la sera del 9 maggio: Virginia Raggi, sindaca di Roma, è ospite a “Porta a Porta”.
Bruno Vespa la incalza sulla questione dei rifiuti, le chiede di illustrare le soluzioni che il Comune di Roma intende mettere in campo per uscire dalla crisi che ha lasciato immondizia abbandonata per le strade delle Capitale.
E Virginia Raggi risponde: “A brevissimo [termine] qual è la soluzione? La soluzione è che la Regione Lazio sblocchi tutte le autorizzazioni che ha già in piedi. […] C’è già una discarica, a Colleferro, che è di proprietà sostanzialmente della Regione. La Regione potrebbe continuare lì.”
Poco più di un mese dopo, l’annuncio: l’inceneritore di Colleferro sarà rimesso a nuovo e salverà Roma dall’emergenza, bruciando fino a 220’000 tonnellate di rifiuti provenienti dalla Capitale, grazie ad un investimento di 2,5 milioni di euro.
Colleferro è una cittadina di 25mila abitanti in provincia di Roma, a circa 60 chilometri dalla Capitale. Un luogo sconosciuto, quasi virtuale, per gli spettatori di Rai Uno e per i lettori dei vari quotidiani, che prende sostanza esclusivamente all’interno del discorso della sindaca o dei trafiletti giornalistici.
Colleferro rappresenta per la Raggi un’autentica manna dal cielo: una soluzione locale e molto più a buon mercato rispetto all’invio di treni e treni di “monnezza” oltre confine; la possibilità di uscire dal fuoco incrociato e spegnere i riflettori che da tempo sono puntati sulla giunta capitolina.
Eppure la “soluzione Colleferro” non è certo una novità: sono ormai 25 anni che la cittadina è inserita a pieno titolo nel business laziale dei rifiuti. Colleferro, infatti, vanta ben due impianti di incenerimento e un’enorme discarica, seconda solo a Malagrotta in termini di volume.
I cittadini di Colleferro e della Valle del Sacco, però, sono stanchi.
La storia della “soluzione Colleferro” è costellata di disastri ambientali, economici e sanitari.
È una storia che va raccontata, per comprendere a pieno l’irrazionalità e il cinismo di chi oggi propone di risolvere in provincia i problemi di Roma.
È una storia che va letta, per poter partecipare in piena coscienza alla manifestazione del prossimo 8 luglio 2017.
Colleferro è una città nata appena un centinaio di anni fa, che ha cambiato pelle più e più volte. L’ultima trasformazione, quella che mette oggi Colleferro al centro della contesa tra Regione e Comune di Roma, risale agli inizi degli anni ‘90.
Ripartiamo da lì.
Gli anni ’90: nasce la discarica di Colle Fagiolara
Ricostruire con precisione gli avvenimenti (e le responsabilità) legati alle prime fasi della discarica di Colle Fagiolara non è semplice: i documenti sono difficili da reperire e ci sarebbe la necessità di impegnarsi in lunghe ricerche d’archivio (giornali, vecchie delibere, ecc.).
Ai fini di questa ricostruzione, tuttavia, è sufficiente richiamare alcuni punti fondamentali: Colle Fagiolara è un’area sita ai margini del Comune di Colleferro che, agli inizi degli anni ’90, risulta ospitare una certa quantità di rifiuti solidi urbani conferiti in modo abusivo.
Il sito va bonificato: i rifiuti presenti vengono estratti e, anziché conferirli presso una delle discariche attive all’epoca, si sceglie di rendere Colle Fagiolara stesso idoneo al conferimento, preparando il fondo dell’invaso ad ospitare quella modesta quantità di rifiuti. L’intenzione finale era di tumulare il tutto, come se si trattasse di una discarica legittima che ha esaurito la propria volumetria, e di lasciarsi alle spalle l’incidente senza dover affrontare spese proibitive.
Queste operazioni, stando a quanto si è riusciti a ricostruire, prendono il via durante i sei mesi di amministrazione prefettizia del 1993, seguiti allo scioglimento anticipato dell’amministrazione Colabucci (Democrazia Cristiana).
Il grosso del progetto, tuttavia, si svolge durante la prima amministrazione Moffa.
Vale la pena di dedicare alla sua figura un paio di pennellate veloci, vista la centralità che ricopre in questo triste capitolo di storia colleferrina: Silvano Moffa è un giovane esponente della destra sociale, impegnato prima nel Movimento Sociale Italiano e poi in Alleanza Nazionale, con una storia personale a metà tra il giornalismo e il partito.
Si candida a Sindaco di Colleferro sostenuto da una sola lista civica, “Aria Nuova”, e conquista al primo turno il 22,5% dei voti. La sua avversaria è Rossella Menichelli, sostenuta dal Partito Democratico della Sinistra e da una lista civica, che si aggiudica il 35,97% dei voti al primo turno. Ma siamo in piena tempesta Tangentopoli e la figura di Silvano Moffa, appena quarantenne, sembra indicare la strada per una svolta in una direzione inesplorata: strappa la vittoria al ballottaggio con il 51,09% dei voti; inizia per Colleferro il ventennio di governo delle destre.
È proprio Moffa che sceglie di dare un nuovo indirizzo alla discarica di Colle Fagiolara. I lavori di messa in sicurezza terminano nel 1995, ma l’invaso non viene ricoperto: il Comune di Colleferro inizia ad utilizzarla come sito di smaltimento dei propri rifiuti solidi urbani.
Il fine è chiaro: risparmiare sui costi di conferimento, gestendo in modo autonomo i rifiuti prodotti sul territorio comunale. Una strategia di per sé comprensibile, a tratti condivisibile.
Se non fosse che il salto dal risparmio al guadagno è brevissimo: nel 1997 la possibilità di conferire a Colle Fagiolara viene estesa anche ad alcuni comuni limitrofi (Artena, Valmontone, ecc.), garantendo al Comune di Colleferro entrate consistenti dalla tassa di conferimento in discarica.
La rotta è definita con chiarezza in alcuni articoli dell’epoca: Colleferro deve entrare a pieno titolo nel business dei rifiuti, sfruttando a suo vantaggio il caos creato dalle inadempienze della Regione Lazio – certe volte, è proprio il caso di dirlo, l’attualità è vintage!
I regali del nuovo millennio: i due inceneritori
Nella primavera del 1997 Silvano Moffa termina il suo primo mandato e si ricandida a sindaco di Colleferro: viene riconfermato, con il 66,5% dei consensi. Un trionfo netto, indiscutibile.
Una vittoria che rende la sua figura più che appetibile per il centrodestra regionale: l’anno successivo, il 1998, vede Silvano Moffa candidarsi alla Presidenza della Provincia di Roma.
Ancora una vittoria, sebbene più risicata: si impone con il 51,1% dei voti.
È proprio nel 1998 che Moffa, figura politica in piena ascesa, concepisce il nuovo grande progetto: costruire un impianto per l’incenerimento dei rifiuti nel territorio del Comune di Colleferro.
Non un’imposizione dall’alto, pertanto, ma una scelta più e più volte rivendicata dall’allora amministrazione comunale: Moffa vuole gli inceneritori e si spende in prima persona, sia come Sindaco sia come Presidente della Provincia, per assicurarsi che il progetto vada in porto.
Gli inceneritori vengono presentati alla cittadinanza come il futuro, la nuova frontiera nella gestione dei rifiuti: un business che aveva già fruttato molto a Colleferro in termini sia occupazionali che economici. Si afferma, addirittura, che i nuovi impianti avrebbero rapidamente soppiantato la vecchia discarica di Colle Fagiolara, che sarebbe andata incontro alla chiusura nel giro di pochi anni: un’illusione, se non una sfacciata menzogna.
Il progetto di costruzione dell’impianto viene approvato in prima battuta dalla Provincia di Roma e dalla Regione Lazio, allora presieduta da Piero Badoloni (Ulivo), e viene successivamente indetta una conferenza dei servizi da parte del Ministero dell’industria, a cui prendono parte gli enti interessati.
Il Comune di Colleferro è chiamato ad esprimersi e l’amministrazione Moffa chiede all’Azienda Sanitaria Locale di competenza (ASL RM/G) di produrre un parere a proposito.
La ASL RM/G risponde nel febbraio del 1999: «si ritiene inopportuno l’installazione di ulteriori fonti di inquinamento che possano aggravare la già critica situazione dell’area di Colleferro Scalo».
Il sito individuato per la realizzazione degli impianti, infatti, «è ubicato vicino ad un agglomerato urbano che per la relativa distanza dal centro di Colleferro, l’immediata vicinanza alla stazione ferroviaria e la contiguità con gli impianti della Società Industria Chimica Caffaro, Bdp Difesa e Spazio ed Italcementi risulta essere già penalizzato da un punto di vista ambientale e sociale» e che «l’area individuata per la realizzazione di un impianto […] è confinante con estese aree utilizzate per decenni come discarica incontrollata di rifiuti industriali».
Eppure, l’11 maggio 1999, il Comune di Colleferro si esprime a favore della costruzione dei due impianti ignorando il parere espresso dall’autorità sanitaria.
Un parere che rimane “nel cassetto” dell’Amministrazione Moffa e che diventa di pubblico dominio solo successivamente, mentre il quartiere interessato dalla costruzione degli impianti inizia una stagione di forte mobilitazione.
Nella cittadinanza la coscienza ambientalista langue, i rischi dell’incenerimento non sono ancora noti all’opinione pubblica: le proteste si rivelano inefficaci e i due inceneritori entrano in funzione a cavallo tra il dicembre 2002 e il giugno 2003.
Un brutto risveglio: l’eredità industriale, prima o poi, torna a galla
Primavera del 2005: un controllo a campione rivela che il latte prodotto in una fattoria di Gavignano, un piccolo comune a ridosso di Colleferro, è contaminato da sostanze tossiche.
Beta-esaclorocicloesano, per la precisione: un residuo della produzione del lindano, un insetticida abbastanza popolare in agricoltura fino alla fine degli anni ‘70, che veniva prodotto dalle industrie chimiche di Colleferro.
Alcuni fusti contenenti scarti industriali erano stati interrati nella campagna colleferrina e, anni e anni dopo, avevano finito per contaminare il suolo circostante, per poi raggiungere il fiume e diffondersi in tutta la Valle del Sacco.
Una contaminazione su vastissima scala, che ha risalito tutti gli anelli della catena alimentare, fino all’uomo: vengono effettuate delle analisi del sangue su un campione di 246 cittadini e in ben 137 di loro si rilevano tracce del pericoloso composto chimico in una quantità superiore ai limiti di legge. Una percentuale che è stata poi confermata da uno studio più esteso su circa 800 individui.
È la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso: era sentimento comune che Colleferro fosse una cittadina inquinata, che i molti anni di piena occupazione garantiti dal forte sviluppo industriale avessero lasciato una pesante eredità ambientale ma ritrovarsi tracce di quelle produzioni nel sangue, certificate dalle analisi delle autorità sanitarie, si rivela uno shock. Un brusco risveglio, per così dire.
È proprio in questo frangente che in città inizia a intravedersi la formazione di una coscienza ambientalista, di una reazione: le scuole superiori di Colleferro iniziano a mobilitarsi nell’autunno dello stesso anno, il 2005, e si chiede a gran voce un’indagine su ampia scala per verificare l’entità del danno sanitario, tempi certi per la bonifica e la possibilità di seguire passo passo lo stato dei lavori di risanamento. Il 23 novembre 2005 nasce il movimento studentesco che, nel 2007, darà vita all’Unione Giovani Indipendenti, un’associazione giovanile che incontreremo ancora più e più volte in questo memorandum dei veleni.
Le iniziative di sensibilizzazione della popolazione si susseguono, così come altre manifestazioni, incontri e petizioni. Qualche anno più tardi, nel 2008, nasce anche ReTuVaSa, la Rete per la Tutela della Valle del Sacco, un’altra associazione che si renderà protagonista del movimento ambientalista sul territorio della Valle del Sacco.
Il germe ambientalista nasce a Colleferro in risposta alla contaminazione industriale, ma ai militanti non sfugge l’analogia tra l’industria chimica degli anni ‘80 e il business dei rifiuti in moto dai primi anni ‘90. Non ci sono ancora i dati, vengono bollati come “allarmisti”, ma la preoccupazione in città cresce, lenta ma inesorabile.
Non bisogna aspettare molto per avere le prime conferme.
Traffico illecito di rifiuti: il sequestro degli inceneritori nel 2009
Nella notte dell’8 marzo 2009 gli inceneritori di Colleferro vengono sequestrati dal Nucleo Operativo Ecologico (Noe) dei Carabinieri di Roma. Tredici persone finiscono in manette.
Tra i principali capi d’accusa troviamo: associazione per delinquere, manomissione dei dati sulle emissioni in atmosfera, falsificazione dei certificati, traffico illecito di rifiuti tossici.
Le intercettazioni lasciano poco spazio all’immaginazione: negli inceneritori di Colleferro si bruciava di tutto — piccoli radiatori, tubi di rame, fili metallici, batterie, materiale ceramico, pneumatici e eternit (!) — mentre i dati sulle emissioni venivano sistematicamente manomessi e i lavoratori vivevano in una situazione di ricatto permanente.
Ecco alcuni stralci delle conversazioni registrate dagli inquirenti:
“È arrivato quello (il carico ndr.) di via Salaria (impianto Ama di preparazione del combustibile ndr.), l’hai saputo? E ci stanno pure gomme delle macchine intere eh…”
“Eh sì, mi devi sta attento”.
Operaio: «Ma questa è roba tossica…».
Dirigente: «Valerià… non mi sta’ a rompe’… Lo vuoi fa’…? Se no lasci perde e lo faccio fare a un altro»
Dipendente: «Dottorè… non è roba buona… L’ha vista la chiamata?»
Dirigente: «Lo so, non fa niente. Se mescola se brucia… Punto!»
Il processo è ancora in corso, a quasi dieci anni di distanza, e meriterebbe un racconto a sé stante. Vale la pena menzionare che ad oggi, nel 2017, alcuni dei dirigenti coinvolti in queste intercettazioni lavorano ancora negli impianti di incenerimento e nel settore dei rifiuti, come se nulla fosse successo.
Tornando al punto, gli impianti riprendono a lavorare nel giro di un paio di mesi per garantire la continuità del servizio, ma la fiducia della cittadinanza in una corretta gestione degli inceneritori è definitivamente compromessa. Il centrodestra e una porzione del centrosinistra continuano a difendere la scelta dell’incenerimento e la bontà degli impianti, scaricando le colpe su un “mero” problema di dirigenza.
Nonostante questo le voci dei comitati ambientalisti iniziano a guadagnare credito e in alcuni settori della popolazione penetra l’idea che un’altra gestione dei rifiuti è possibile: un’economia circolare, che non abbia al centro discariche e inceneritori, capace di garantire i servizi senza mettere a rischio la salute dei cittadini.
Mentre i cittadini si organizzano, tuttavia, lo scenario continua ad evolversi (in senso negativo): nel 2008 il piano rifiuti regionale della giunta Marrazzo aumenta ad un milione e mezzo di metri cubi il volume di rifiuti che può accogliere la discarica di Colle Fagiolara.
Colleferro può vantare la seconda discarica più importante del Lazio, subito dopo Malagrotta.
Arrivano i primi dati sanitari e il fronte della protesta si allarga
Nel dicembre del 2011 viene pubblicato lo studio S.E.N.T.I.E.R.I. (Sorveglianza epidemiologica di popolazioni residenti in siti contaminati) del Ministero della Salute.
Nelle conclusioni, a pagina 51, si afferma che “nel […] Bacino Idrografico del Fiume Sacco si è osservato un eccesso di mortalità per tutte le cause. È stato inoltre osservato tra gli uomini un eccesso di mortalità per i tumori, per il tumore dello stomaco e le malattie dell’apparato digerente, e tra le donne per malattie dell’apparato circolatorio, mentre si è osservato un complessivo difetto della mortalità per tumore tra le donne. Gli eccessi osservati tra gli uomini per tumore dello stomaco e per malattie dell’apparato digerente possono essere riconducibili a esposizioni di tipo occupazionale.”
Il dito è puntato sull’eredità industriale, ma viene messo per la prima volta nero su bianco che a Colleferro e negli altri comuni della Valle del Sacco persiste una situazione di emergenza sanitaria.
Meno di un mese dopo, il 6 gennaio 2012, il Commissario Delegato per l’Emergenza Ambientale (rifiuti) della Provincia di Roma annuncia di aver ricevuto una proposta di Acea e AMA per la realizzazione di un impianto di Trattamento Meccanico Biologico (TMB) a Castellaccio, un’area all’interno del comune di Paliano, immediatamente confinante con Colleferro.
L’impianto in questione è progettato per trattare 300’000 tonnellate di rifiuti l’anno, destinandone parte all’incenerimento negli impianti di Colleferro e parte al conferimento nell’adiacente discarica di Colle Fagiolara.
L’intento è chiarissimo: risolvere a Colleferro la (perenne) emergenza rifiuti romana – è un ritornello che vi ha già stancato, probabilmente, eppure è la realtà quotidiana della Valle del Sacco degli ultimi 15 anni, ripetuta fino alla nausea.
Le dimensioni dell’impianto sono impressionanti e il rischio di trasformare definitivamente Colleferro e dintorni nella discarica della capitale per il prossimo decennio è sotto gli occhi di tutti.
Tutte le realtà ambientaliste e civiche della Valle del Sacco si riuniscono in un coordinamento e convocano per il 6 ottobre 2012 una grande manifestazione a Colleferro, dal titolo “E tu, sei uno zero?” (6/10, la data del corteo).
Si chiede ai cittadini uno scatto di dignità, una reazione di fronte all’ennesimo sopruso, all’ennesima violazione del diritto alla salute, del diritto ad un futuro diverso per sé e per il proprio territorio.
La risposta della popolazione è travolgente: più di quattromila persone hanno partecipato al corteo al grido di “questa Valle non si vende, questa Valle si difende”, “chi non ha il coraggio di ribellarsi non ha il diritto di lamentarsi” e “vogliamo lavorare senza farci avvelenare”.
Cittadini di Colleferro, Paliano, Anagni, Sgurgola, Labico, Valmontone, Genazzano, Ceccano, Ferentino, Montelanico, Segni, Carpineto, Olevano, Bellegra, San Vito, Serrone, Piglio e molti altri provenienti anche dal resto del Lazio.
Un mese dopo, il 9 novembre 2012, il Dott. Goffredo Sottile, Commissario per l’emergenza rifiuti nel Lazio, afferma in una nota che “ogni iniziativa al riguardo [del TMB] è momentaneamente sospesa”.
Una prima grande vittoria, anche se il brivido del trionfo dura poco: viene pubblicato in quei giorni lo studio epidemiologico ERAS, realizzato Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente (ARPA) della Regione Lazio.
L’Unione Giovani Indipendenti e l’Associazione Mamme Colleferro presentano i risultati alla cittadinanza il 30 novembre 2012, in un’aula consiliare gremita – ma non c’è niente da festeggiare e lo si capisce già dal titolo dell’incontro: “I crimini contro la vita li chiamano errori”.
Dalle analisi si riscontra un peggioramento dello stato di salute della popolazione dopo l’attivazione degli impianti di incenerimento, con picchi drammatici: +79% di ricoveri per malattie polmonari cronico ostruttive, +31% per malattie dell’apparato respiratorio e +78% di infezioni acute dell’apparato respiratorio nei bambini.
Per la prima volta il legame tra business dei rifiuti e peggioramento della salute dei cittadini è scritto nero su bianco, certificato da un’autorità alle dipendenze della stessa Regione Lazio.
C’è voluto del tempo per dimostrarlo, alle autorità e alla cittadinanza, ma quei giovanotti allarmisti avevano ragione da vendere.
Gli attacchi continuano, la Valle stringe i denti
L’opinione pubblica è ormai sensibile alle tematiche ambientali, ma non si può abbassare la guardia.
A inizio 2013 l’Italcementi, presente a Colleferro con un cementificio, chiede alla Regione Lazio l’autorizzazione per bruciare rifiuti non pericolosi come combustibile solido secondario, in parziale sostituzione dei combustibili fossili tradizionali, principalmente petcoke di petrolio. Una strada resa possibile dal decreto Clini, uno dei tanti regali sciagurati dell’allora governo Monti.
Le associazioni prendono in mano le carte del progetto, ne studiano le criticità e si oppongono in fase di autorizzazione presentando delle osservazioni tecniche: il 27 giugno 2013 la Regione accoglie le istanze dei comitati e stabilisce che il progetto deve sottoporsi alla procedura di Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A.). La questione, con una serie di sviluppi successivi, si concluderà con il ritiro del progetto da parte di Italcementi.
La linea degli ambientalisti è chiara: opposizione all’incenerimento, in tutte le sue forme e diramazioni.
Nel frattempo si susseguono gli incidenti: il 23 giugno 2013 si verifica un incendio presso l’impianto di produzione di CDR (combustibile derivato da rifiuti) di Paliano, mentre il 23 luglio 2013 prende fuoco un nastro trasportatore presso uno dei due inceneritori di Colleferro.
La discarica di Colle Fagiolara, nel mentre, è al centro di un contenzioso in merito al conferimento del rifiuto non trattato (cosiddetto “tal quale”), con una palese violazione delle norme europee in materia. La stessa discarica sarà interessata da un incendio di discrete proporzioni poco tempo dopo, l’11 giugno 2014.
Il 5 maggio 2014 l’ennesima beffa: a quasi due anni di distanza dalla grande manifestazione del 6 ottobre 2012 la Regione Lazio autorizza l’impianto di Trattamento Meccanico Biologico a Paliano, con un iter amministrativo durato quasi quattro anni.
Sempre nel settembre del 2014 arriva un altro pugno sui denti per i movimenti ambientalisti italiani: il decreto Sblocca Italia, il biglietto da visita del Governo Renzi. Lo Sblocca Italia trasforma gli inceneritori in “infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale” e decima a colpi di machete tutti i meccanismi di salvaguardia e gli spazi di opposizione a disposizione dei cittadini e dei comitati, arrivando a dimezzare i tempi per tutti i procedimenti amministrativi che li riguardano, come l’Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.), necessaria per l’esercizio e la messa in produzione degli impianti di incenerimento.
Il fronte ambientalista entra nuovamente in mobilitazione, convocando una manifestazione per il 29 novembre 2014. Non c’è tregua.
Il nuovo impianto di TMB, complici anche le difficoltà finanziarie di Lazio Ambiente (società subentrata al consorzio Gaia per la gestione dei rifiuti), resta su carta.
Elezioni 2015: il Comune di Colleferro cambia timoniere
Il Comune di Colleferro è stato, dal 1993 ai primi anni 2000, il principale promotore del business dei rifiuti. Prima con la discarica, poi con i due inceneritori.
Da lì in avanti, invece, la spinta e le decisioni sono passate principalmente nelle mani della Regione Lazio e del Comune di Roma, complice un progressivo svuotamento delle prerogative degli enti comunali, ma il Comune di Colleferro non ha mai smesso di sostenere la strategia di fondo e non si è mai opposto, in nessuna sede, alle politiche che si volevano mettere in campo su questo territorio.
Nell’inverno del 2015, a causa di dissidi politici e personali inconciliabili, cade l’amministrazione di centrodestra di Mario Cacciotti, già alla seconda consiliatura.
La sfida che si profila alle amministrative ha il sapore della resa dei conti: da un lato Silvano Moffa, ritornato a Colleferro dopo svariati anni passati in Parlamento, dall’altro Pierluigi Sanna, un giovanissimo indipendente di 27 anni.
Si affrontano due visioni e due esperienze politiche radicalmente antitetiche.
Moffa è il principale responsabile politico della riconversione di Colleferro in città dei rifiuti e rivendica con forza tutte le scelte messe in campo in quella direzione, imputando le difficoltà solo ad un problema di gestione dell’esistente.
Sanna, invece, è uno dei giovani che nel 2005 ha dato vita, forza e gambe al movimento ambientalista; propone una radicale inversione di tendenza nella gestione dei rifiuti in città, avviando una raccolta differenziata porta a porta spinta, con l’obiettivo di chiudere entro la fine della consiliatura la discarica di Colle Fagiolara e lavorare in tutte le sedi per la chiusura dei due inceneritori (scelta che esula, purtroppo, dalle competenze del primo cittadino, specie dopo il decreto Sblocca Italia).
I cittadini sono davanti a una scelta, inequivocabile.
E l’esito delle urne non lascia spazio a discussioni: al primo turno Sanna conquista il 42,71% dei voti, mentre Moffa si ferma al 31,41%; al ballottaggio Sanna ottiene il 69,42% dei consensi – Colleferro ha scelto di voltare pagina.
Chi ti è nemico non dorme mai
Le sfide che la nuova amministrazione si trova a fronteggiare sono numerose, così come gli ostacoli lungo il percorso. Il Comune di Colleferro, oltre ad una crisi ambientale e sanitaria, si trova a dover fronteggiare una situazione debitoria piuttosto consistente, con il rischio di default dell’ente più concreto che mai.
Parte del problema è da imputarsi proprio all’incepparsi del business dei rifiuti: l’aumento della percentuale di raccolta differenziata nei comuni del comprensorio ha ridotto di molto la quantità di rifiuti conferiti nella discarica di Colle Fagiolara, con il conseguente calo di una delle entrate economiche più significative per il bilancio del Comune di Colleferro, su cui poggiava la gran parte degli impegni di spesa (anche strutturali) – parliamo di quasi 3 milioni di euro, tra ristoro ambientale e tassa di conferimento.
Sulla chiusura della discarica di Colle Fagiolara, tuttavia, pesa un dubbio atroce: chi garantirà i fondi necessari alla gestione post mortem?
Le discariche, una volta esaurita la volumetria dedicata al conferimento dei rifiuti, devono essere messe in sicurezza e monitorate per un periodo di tempo trentennale, con tutti i costi che queste operazioni comportano. È dovere del gestore provvedere all’accantonamento, nel tempo, dei fondi necessari alla gestione successiva alla chiusura ma, a causa del fallimento del consorzio Gaia, i soldi necessari a garantire una morte “serena” alla discarica di Colle Fagiolara sono spariti, se non per i pochi spicci messi da parte da Lazio Ambiente negli ultimi anni di gestione. Il Comune di Colleferro chiede garanzie alla Regione Lazio di Zingaretti, ma per ora non ci sono risposte. L’obiettivo del Comune di Colleferro rimane la chiusura nel 2019.
Le prospettive sono ancora più cupe per i due inceneritori: da alcuni anni, infatti, gli impianti sono talmente vecchi e malridotti da passare la maggior parte del tempo fermi e in manutenzione. Si avvicina il momento della scelta: chiuderli, riconvertirli o effettuare il cosiddetto “revamping”, ossia investire per rimettere gli impianti in condizione di bruciare rifiuti.
Il Comune di Colleferro e le associazioni ambientaliste chiedono la chiusura o la riconversione in un impianto funzionale alla strategia rifiuti zero.
La Regione Lazio, complice l’ennesima emergenza di rifiuti a Roma (e la chiusura, qualche anno fa, della discarica di Malagrotta), vuole il revamping degli inceneritori. Nel bilancio di previsione di Lazio Ambiente per il 2017–2019 la Regione Lazio ha stanziato 12,6 milioni di euro per la ricapitalizzazione della società, di cui 3,5 milioni sarebbero destinati all’inceneritore di proprietà al 100% di Lazio Ambiente e altri 3,5 milioni per l’inceneritore di EP Sistemi (partecipata da Ama al 40% e da Lazio Ambiente al 60%).
Il tema, nell’aria da tempo, ha assunto straordinaria concretezza lo scorso 19 giugno 2017, quando l’assemblea dei soci di EP ha deliberato lo stanziamento di 2,5 milioni per il potenziamento dell’impianto di incenerimento, in sintonia con gli intenti della Regione Lazio.
Il revamping, oltre a gettare le basi per altri 10 o 20 anni di incenerimento, suona come una presa in giro nei confronti dei cittadini di Colleferro che da un paio di mesi hanno iniziato una raccolta porta a porta spinta, portando la percentuale di differenziata sopra il 70%, stando ai primi dati.
Ora o mai più: 8 luglio 2017
I comitati e le associazioni ambientaliste hanno convocato una giornata di mobilitazione per sabato 8 luglio.
Colleferro è davanti a un bivio: la scelta di farne ‘la città della monnezza’ ha determinato 20 anni di progressivo decadimento, chiudendo tutte le strade per uno sviluppo alternativo.
Nuove strade si devono aprire, ma le vecchie strade vanno sbarrate: bisogna mettere un punto alla strategia che vede la provincia come discarica della Capitale, la Valle del Sacco come il distretto dei rifiuti.
L’8 luglio 2017 non è la data in cui una città si ribella al grido di “non mettete i rifiuti nel mio giardino!”. Questa battaglia ha una storia, lunga più di 10 anni. Una storia che ho cercato di raccontarvi, un passato trentennale che ho cercato di ricostruire in queste poche pagine.
L’8 luglio è molto di più.
L’8 luglio è la data in cui una città ribadisce che ne ha avuto abbastanza.
L’8 luglio è la data in cui una Valle grida a gran voce “abbiamo già dato”.
L’8 luglio è la data in cui, al di là delle simpatie politiche e degli schieramenti, una popolazione intera è chiamata a scendere in strada per riprendersi la propria dignità e portare a termine un percorso di riscatto lungo 10 anni.
L’8 luglio è la data in cui, tutti insieme, si grida a gran voce “non passerà neanche un camion”.
Luca Palmieri