“Con la cultura non si mangia”.
Anni fa questa stupidaggine venne attribuita specificatamente al ministro Giulio Tremonti, diventato simbolo di una visione gretta e materiale dell’aggressione al patrimonio artistico pubblico.
Tremonti non è certo l’unico colpevole, ma semmai ha incarnato questa opinione: studiare o lavorare nei beni culturali sarebbe una perdita di tempo perché non genera profitto reale, meglio dedicarsi ad altro. Salvo poi, accorgendosi che effettivamente parlare di azioni, finanza e speculazioni non ha un grande appeal, i patrimoni culturali possono essere usati e consumati. In pratica, il patrimonio culturale non deve essere sovvenzionato poiché non genera utili, ma deve essere pronto e performante quando c’è bisogno di esibizione.
Tutto il sistema culturale emanato da ogni ministro della Cultura in Italia negli ultimi 40 anni ha picconato e reso improbabile la vita lavorativa: se l’inserimento del paesaggio nei beni da tutelare è una conquista non così recente (anni Sessanta e Settanta i primi accenni), si sta facendo di tutto per riuscire a smantellarlo.
Ogni aspetto della fruizione culturale è minata dalla totale mancanza di investimenti, dalla mancanza di personale, dalla delega a enti, fondazioni e cooperative private che per prima cosa scaricano i costi del lavoro portandolo vicino allo zero. Archeologia, conservazione, museologia, biblioteche, archivi, arti performative, fotografie, arti plastiche. Gli archeologi che sono costretti ad aprirsi una partita iva per fare vigilanza notturna nei cantieri a 5 euro l’ora, volontari negli archivi perché stanno rapidamente andando in pensione i vecchi dipendenti, sovrintendenti a numerose aree archeologiche contemporaneamente distanti km tra loro. I bandi di gara che prevedono volontariato dal personale in sala alla persona che lo dirigerà, o peggio, un background economico al posto di uno in conservazione. Siti archeologici abbandonati a sé stessi, irraggiungibili, privi dei servizi più elementari contro la celebrazione in pompa magna di aver cambiato due beole a Pompei, così come interi archivi lasciati al più totale abbandono degli agenti atmosferici.
Tutto questo nasce dall’idea ridicola che il patrimonio culturale sarebbe un carrozzone inutile, una spesa superflua. Perché è presto detto, per tre ragioni molto semplici:
- la prima: l’archeologia è una brutta bestia e tende a voler studiare le stratigrafie di ciò che trova e spesso quindi ostacola l’edilizia in luoghi remoti in un paese primo per consumatore di suolo come è l’Italia.
- La seconda: l’archivistica è una creatura malvagia perché tende a voler conservare ogni foglio possibile, tenendo quindi traccia della memoria dei documenti, in un paese che tende ad appiattire la memoria su un eterno qui, ora, e a ricordare la necessità di avere spazio per documenti che non può essere convertito ad altro.
- La terza: siamo in un paese profondamente classista e poverofobico, e l’uso della cultura può essere solo riservato a una acritica celebrazione del potere. Se l’arte contemporanea tende alla critica della società e del potere, viene invisibilizzata celebrando musei privati pieni zeppi di schermi con immagini AI (che ovunque tranne qui stanno cadendo sotto gli assalti delle class action degli artisti), l’arte classica viene svuotata di complessità e ridotta a mera confezione meravigliosa che può essere affittata da chicchessia per eventi privati, a fronte di ingressi sempre più costosi, eventi sempre più esclusivi, prestiti museali sempre più ridicoli. Oltre alle scuole sempre più costose, di arte o di comunicazione dell’arte, scuole di conservazioni, archeologie, master, perfezionamenti post doc etc che mirano, anno dopo anno, a restringere i pretendenti a posti di lavoro a contatto con le arti a una cerchia sempre più oligarchica di nepokids che possono sgranare rosari di stage. Siamo lontani anni luce dei concetti di museo espressi dall’ICOM (museo come luogo per il cittadino di apprendere, di cultura, di fruizione e di diletto) e da quelli, paradossalmente, dell’Inghilterra vittoriana e Francia dove, anche se da un lato si riempivano la pancia di beni ottenuti in maniera per dire burocraticamente acrobatica dalle sue colonie, dall’altro si ripensava totalmente struttura e orari per permettere alla classe lavoratrice di godere del bello, di acculturarsi da soli nei meandri delle esposizioni accorpate dai mecenati tramite una nuova invenzione: le didascalie e la pannellistica.
Tutto ciò nasce, in Italia da un concetto che nemmeno nella fantascienza più estrema: il museo/patrimonio culturale deve essere un generatore di profitti.
Questa visione ha portato a situazioni estreme: se da un lato i concorsi per dirigere un museo hanno del tutto perso la caratteristica richiesta di conservazione privilegiando background aziendali ed economici, dall’altra c’è stata una drastica corsa al ribasso del costo del lavoro tramite i contratti pagliacci che applicano in maniera creativa la contrattualizzazione pur di non pagare il personale esternalizzato e mantenerlo nelle situazioni più precarie possibile, mentre il personale interno invece si sta avvicinando sempre più alla soglia pensionistica.
Ogni riforma dal 1990 a oggi ha partecipato a smantellare i sistemi culturali in Italia, instaurando sempre più una meccanica volta a privatizzare e precarizzare i dipendenti, in un’assurda idea che il sito culturale sia profittevole quanto un centro commerciale pensando di poter dedurre un utile da quello spiraglio tra la cifra del bando vinta e alla soglia di povertà degli stipendi dei dipendenti: pensare di poter fare impresa in crescita con questo sistema è matematicamente idiota, prima ancora di umanamente riprovevole, perché dato un numero finito di turni da coprire si genera un numero finito di stipendi non emessi, che non può essere una voce che ammortizza il non-incasso. Questo sistema infatti va fortissimo soprattutto per i musei più grossi e le mostre, perché i prestiti sono soprattutto da privati. Dei 15 euro in media richiesti per il biglietto, c’è un ulteriore capolavoro del ministero della cultura: l’ente che ospita si accolla le spese (riscaldamento, personale interno), mentre molto più dell’incasso va in balzelli, prestatori anonimi, distributori, fondazioni esterne.
Solo un folle che non conosce le più basilari leggi della libera impresa penserebbe che gestire un museo possa generare un attivo degno del titolo azienda leader del settore, e basterebbe dare un’occhiata ai dati reali: il 70% dei musei italiani non arriva a staccare in un anno 5000 biglietti, a fronte della necessità di essere aperti tutti i giorni, pagare le bollette, gli stipendi, le assicurazioni. Musei che oltretutto, dopo il covid, hanno ridotto drasticamente l’orario. Perché, ricordo, la missione del sito culturale non è generare utili, ma essere aperto e fruibile e conservare e comunicare per la cittadinanza, anche se in tutto l’anno solare entrasse una persona soltanto. Se invece di anno in anno la frequentazione cala, qualcosa non sta funzionando nella narrazione che il museo fa di sé alla cittadinanza.
5000 biglietti che in maggior parte, oltretutto, sono scolaresche locali, quindi si tratta pure di biglietti dimezzati impiegati per l’educazione. È chiaro che o la struttura la sera venga aperta per ospitare una bisca clandestina o, dal punto di vista meramente d’impresa, non può stare in piedi. Eppure la tendenza dei vari ministri che si sono succeduti è permettere che si instaurino fondazioni, cooperative e associazioni che assolvano il ministero dell’onere del personale, a fronte di peggiorare la situazione di fruizione del sito: orari di apertura sempre più risicati fino alla necessità di prenotazione, a giorni alterni, improvvisi aumenti di costo del biglietto, opere prestate e non annunciate fino a trovare le sale vuote o addirittura chiuse, servizi non garantiti (bagni). Non apro la parentesi legata alla fruizione da parte delle persone diversamente abili perché sarebbe una tragedia. Il settore culturale è l’unico in cui si accetta di buon grado l’esistenza concorrenziale del volontario e del personale sottopagato che spesso deve assolvere alle mancanze e lacune in paradosso del personale interno.
La cosa più assurda è che tutto ciò non è un sistema di imprese nel libero mercato che, sfruttando leggi, pensa sia più premiante avere una classe lavoratrice sclerotizzata, ma che sia derivativo dal Ministero di competenza e, in scala, dallo Stato. Stato che, intanto, ha smolecolarizzato il tessuto del lavoro permettendo di avere qualcuno sempre più in basso a cui rivolgersi: se non è un precario, sarà uno stagista, e dopo l’alternanza scuola lavoro, e dopo il volontario.
Questo circolo vizioso crea tre situazioni: la cronica mancanza di investimenti e assunzioni; personale esterno, comunque già molto formato, con paghe da fame e una vita precaria, e un enorme stress sui beni stessi che vengono sballottati senza apparente criterio da una mostra all’altra, dove vengono esposti a centinaia di migliaia di visitatori senza un concreto beneficio.
Questo porta a musei comunali vuoti, ad archivi abbandonati che chiudono, a biblioteche che rischiano il collasso, e a un numero risicato di siti culturali letteralmente presi d’assalto dalla folla che paga una cifra invereconda per esibire la propria presenza a una mostra di grido.
Tuttavia, il fatto che musei, aree archeologiche, archivi e biblioteche debbano essere responsabili nelle loro scelte (e cioè ricordarsi che la loro missione è, appunto, accogliere la cittadinanza, non respingerla trincerandosi dietro a scelte intellettualmente classiste e respingenti), non vuol dire che debbano essere lasciate da sole: un sistema come quello voluto soprattutto da Franceschini in cui il museo risponde solo e soltanto dei propri incassi mette in difficoltà, appunto, tutti quei piccoli musei che vengono frequentati soprattutto dalle scolaresche, e sclerotizzano invece quelli con opere vedette, dove accampano spettacoli circensi. Un museo piccolo o un’area archeologica molto isolata non avrà mai più i fondi per tutelare se stessa: salteranno le opere di manutenzione semplici (taglio dell’erba), del costo del lavoro (diverranno volontari), fino a che sarà un non-luogo esposto agli agenti, sempre meno battuto da elementi erratici come i turisti, divenendo al contrario luogo interessante per la criminalità, tra tombaroli e traffichini.
Inoltre è abbastanza provato che in un regime in cui subentra un principio di economia la prima voce di costo che salta è il costo del lavoro, a fronte comunque di una richiesta di persone sempre più formate (sei pagato € 5/ora, ma devi comunicare in tre lingue e dare informazioni culturali). È un sistema che se fosse esclusivamente in libera impresa sarebbe insostenibile: non solo perché tutti i musei del mondo hanno comunque delle difficoltà a restare in attivo nonostante il loro egregio lavoro dietro al sistema che regge le grandi donazioni private, ma perché semplicemente il museo non è un parco avventura di divertimento.
Il museo deve essere aperto tutto l’anno, garantire il minimo servizio anche se nel corso dell’anno solare entrassero solo 10 visitatori. E lo deve fare anche l’anno successivo, e l’anno dopo ancora. Questo perché il patrimonio culturale è lo Stato, e lo Stato siamo noi.
La situazione non cambia alzando i prezzi dei biglietti a cifre stellari creando il paradosso di renderlo inavvicinabile al pubblico a fronte di scuse ridicole come bisogna meritarselo, non c’è prezzo per la bellezza quando poi il massimo dell’esperienza che si offre è sale stra affollate, in mano a un pugno di società che ammassano nelle sale gruppi su gruppi, e nessuna fruibilità dell’opera e si grida al miracolo quando un nuovo direttore rende leggibili i nuovi cartellini, implementa una cartellonistica bilingue o semplicemente manda l’ispettore del lavoro a capire com’è che i dipendenti interni non sono in postazione.
L’assurdità è proprio questo sistema, evidenziato nel caso della Valle Camonica, di scaricabarile o, se preferite, più scientificamente detto stallo alla messicana: non è colpa del Ministero, è colpa dell’Azienda, per cui la colpa è dei lavoratori che costano troppo e del pubblico che manca. Il che è assurdo, perché se c’è qualcuno che non ha alcun problema di voci di costo dovrebbe essere proprio lo Stato, poiché è sorretto dalle tasse della cittadinanza e, per far sì che i luoghi culturali possano sopravvivere di sé, deve invece investire in qualità formativa, stabilità, comunicazione con la cittadinanza.
Il personale esterno non deve solo tamponare una situazione che in realtà è cronica, poiché più passa il tempo più vi è necessità di avere personale, anche qualificato, che si faccia carico della fruizione del sito. Quello che sfugge in tutto ciò è che, nei bandi di gara dove spadroneggia il massimo ribasso con lacune fino al 33% in meno come nel caso della vittoria della COSMOPOL, è che gli organismi dello Stato avrebbero potenzialmente la possibilità, a fronte di offerte percepite come incongrue per i costi morali ed economici, cioè se troppo bassi per ogni criterio immaginabile, di richiamare sopralluoghi all’improvviso nell’azienda e decidere, per incompatibilità con la decenza, di respingere la domanda.
A fronte delle paghe da fame e dall’abuso di volontariato, è chiaro che il Ministero della Cultura ritenga tutto ciò invece accettabile.
Quello in atto nei mestieri culturali è un vero e proprio ricatto morale nei confronti delle persone.
Da un lato c’è la fredda e matematica certezza che, a fronte di abbassare l’offerta economica, qualcuno di abbastanza formato che accetti ci sarà sempre e fornirà volente o nolente le sue competenze al costo di una coca cola/ora. Di conseguenza, anche se lavoratrici e lavoratori scioperano, o si licenziano, il tasso di sostituzione su cui si può contare è abbastanza alto e può essere rapidamente sostituito. In questo senso sono sia i lavoratori più fragili che sono, per vari motivi, costretti a farsi bastare pochi spicci/ora, sia quelli che non hanno nessun bisogno di lavorare, perché stanno frequentando l’ennesimo stage professionalizzante per ottenere l’ennesima bandierina sul CV che servirà a ottenere il prossimo incarico piuttosto prestigioso e che quindi lo fanno volentieri (un’altra piaga sociale dei mestieri culturali). L’altra parte del ricatto morale è che sono moltissime le persone che hanno studiato materie umanistiche e beni culturali, e a cui piange il cuore sapere che il sito potrebbe restare chiuso, o rischiare, se non c’è qualcuno che si immola sull’altare della missione umana, e che si sentono costrette per questo ad accettare qualsiasi cosa pur di restare nel sentiero che da un lato è nel proprio campo di studi, dall’altra qualcosa che amano per permettere che il sito resti aperto.
Non solo, guardiamolo anche dal lato meramente economico e di libera impresa: stiamo parlando di decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici molto qualificate, con competenze linguistiche (italiano, inglese, terza lingua EU/nonEU), culturali (applicazioni umanistiche orizzontali che connettono tutti i possibili scenari richiesti dal pubblico), applicative (software, impaginazione, fruibilità), umane (assistenza al pubblico straniero, anziano, infantile, disabile). Persone intrappolate in situazioni precarie che, alla prima occasione di stabilità, farà fagotto per sempre, portandosi via le proprie competenze. Possibilmente fuori dall’Italia. Questo sistema così concepito dice letteralmente che lo Stato preferisce fare a meno di personale qualificato già formato nei propri siti, mettendolo in condizione di lavoro opportune, perché grazie al subappaltamento nel massimo ribasso preferisce tenere le persone ricattate precarizzando la loro vita, rendendola instabile e spingendole all’abbandono del settore, un settore che al contrario ha bisogno proprio di personale stabile e qualificato per restare a galla e che basta un accenno di protesta essere messo subito in difficoltà.