«Sono molto contento di essere qui con Civati. Sarei stato contento di essere con chiunque altro, ma di essere qui con lui sono un po’ più contento». 31 agosto, Torino, Festa democratica. Gustavo Zagrebelsky apre con queste parole il suo discorso. Un discorso impegnativo, che guarda e analizza il rapporto tra politica e potere, con spunti che non possono che ricorda le larghe intese, una «formula di Governo che mira ad un compito che politico non è, quale la conservazione dell’establishment». L’essenza della politica, invece, si traduce nella capacità di compiere delle scelte, di preferire una cosa ad un’altra e di agire per realizzarla. «In Italia, al contrario, non si fa più politica: non siamo più nelle condizioni di scegliere».
L’immagine, la metafora, che Zagrebelsky utilizza per descrivere la situazione politica italiana — e non solo, anzi — è quella dell’uroboro, una figura mitologica, un serpente che si morde la coda, rappresentazione edulcorata del serpente che si nutre dei suoi stessi escrementi. E così, allo stesso modo, la crisi della politica sta nel rapporto con il potere, che, oggi, serve solo alla produzione di ricchezza per sé, per conservare il potere: il potere si alimenta perciò del denaro che esso stesso produce, un denaro che non è più ricchezza da ridistribuire.
Ecco, perciò, il compito di una forza politica: rompere questo meccanismo che si autoalimenta, riscoprendo la prossimità tra istituzioni e cittadini. Tocca a Giuseppe Civati declinare tutto ciò in termini politici, e le sue prime parole sono «crisi della rappresentanza». Che si è fatta vedere già al momento del voto di febbraio. O forse prima, perché quando la partecipazione si è manifestata è stata la politica a nascondersi, come nel caso dei referendum sull’acqua. E si manifesta tuttora, con l’incredulità dei nostri elettori che, di fronte a proposte elettorali di un certo tipo, ora vedono realizzarsi tutto il contrario. Non qualcosa di diverso: tutto il contrario.
Il nostro compito risiede qui. Nel colmare questa distanza, nello spalancare le porte del palazzo, per avvicinare i centri di decisione ai cittadini — senza dover trasferire i Ministeri a Monza… — e recuperare quella prossimità che è l’unico strumento per sconfiggere l’uroboro.