In attesa delle primarie aperte del 16 febbraio, mentre nel silenzio più o meno totale proseguono le iniziative sul territorio dei candidati segretari regionali, ecco alcune proposte che dedichiamo a tutti loro, a chi ci è più vicino (ma non solo, ovviamente).
Perché di questo partito non ci stiamo occupando granché, al momento, ed è anche comprensibile che in questi primi mesi post congressuali sia così. Noi però siamo tra quelli convinti che un partito sano, funzionante e partecipato serva, serva molto, e che per averlo sia utile cambiarlo, in profondità, a partire anche dalla dimensione locale. Le regioni possono diventare laboratori di democrazia e partecipazione, e un partito migliore sotto casa è la base per un partito migliore in tutto il Paese, un partito che promuove una classe dirigente nuova e competente, che coinvolge gli elettori e che vince le elezioni (sì, perché in primavera si vota per le europee e per molte amministrazioni locali).
Così, anche per mantenere un collegamento logico con quanto abbiamo visto durante il congresso nazionale — e che non possiamo, come alcuni sembrano suggerire, far finta che non sia successo — ecco alcune questioni che avevamo sollevato in quella sede e che riproponiamo ai candidati regionali, sperando vogliano rilanciare:
- questione tesseramento: lo scempio avvenuto solo tre mesi fa, abbinato a un calo letale nei numeri assoluti e nella partecipazione, impone una revisione complessiva del modello di partecipazione e adesione al nostro partito, che non può stare in mano solo ai cacicchi e ai signori delle tessere. Se in sede locale si sperimentasse una certificazione del tesseramento non per federazioni, ma personale, in modo che l’unico modo per tesserarsi fosse quello di farlo di persona personalmente, sarebbe già un importante passo avanti.
- nuovi modelli di partecipazione: in un partito ricco di competenze anche diffuse come il Pd è incredibile che non si siano ancora sperimentati metodi di consultazione della base su questioni tematiche e di programma. Le tecnologie ci sono, e sono abbordabili dal punto di vista dei costi: servono a diffondere le informazioni per arricchire il dibattito e renderlo più consapevole, e ad affiancare il lavoro nei circoli, quello di persona, non a sostituirlo. Un partito che sta sul territorio, ad esempio in una regione, e che consulta i suoi elettori per stabilire una linea sulle infrastrutture, sui rifiuti, sul bilancio pubblico, è possibile e si può realizzare domani.
- un finanziamento diffuso: l’impoverimento dei circoli è totale, e se siamo d’accordo che è un peccato, che rappresentano la nostra infrastruttura e che esistono modelli di gestione in grado di far funzionare le nostre sedi e di trasformarle in veri crocevia di incontro tra partito e resto del mondo, allora dobbiamo renderci conto che senza mezzi non è possibile sopravvivere. Oltre a una diversa destinazione del finanziamento pubblico — finché sarà in vigore — serve una diversa e meno piramidale distribuzione delle risorse: quote delle cariche elettive direttamente ai circoli, e meno passaggi tra livelli nazionale, regionale, federazione. E convenzioni complessive sui servizi (a partire dalle connessioni a internet).
- a proposito di finanziamento: se davvero si va verso il superamento del finanziamento pubblico ai partiti, allora l’altra metà delle riforma ha a che fare con la regolamentazione di quanto già oggi raccolgono i privati. Non esiste un tetto, non c’è obbligo di rendicontazione, e sfortunatamente il Pd è particolarmente ricco di esempi di suoi esponenti sostenuti da fondazioni personali: limitarle e costringerle alla trasparenza, in attesa di leggi dello Stato, si può e si deve fare anche in sede di partito.
Si vota il 16 febbraio, come dicevamo, e a molti può sembrare un appuntamento molto “interno” al Pd. Ma, se anche solo una parte di queste proposte venisse realizzata, sarebbe ben chiaro che la posta in gioco è un po’ più alta.