Cosa può fare un sindaco per favorire la creazione di posti di lavoro nella sua città? Può guardare alle esperienze di altre città e provare a replicare i modelli migliori. Vediamone alcune americane (i più interessanti studi sul tema sono stati fatti su città americane) e una europea.
Seattle — Fine degli anni Settanta (1979 per la precisione), l’economia di Seattle dipende in modo rilevante dall’industria manifatturiera classica e dall’industria del legname. Circa metà dei posti di lavoro industriali sono nel settore trasporti. Con l’eccezione dei dipendenti di Boeing e della University of Washington, i residenti non sono particolarmente istruiti. Il tasso di criminalità è elevato, le scuole pubbliche di bassa qualità e i musei fatiscenti. L’Economist qualche anno prima ha definito Seattle “la città della disperazione”, e all’aeroporto cittadino in quegli anni campeggia persino un ironico cartello con su scritto: “L’ultimo che lascia Seattle è pregato di spegnere la luce”.
Nel 1979 due imprenditori, Bill Gates e Paul Allen, decidono per motivi affettivi di spostare la sede della loro neonata società di nome Microsoft da Albuquerque a Seattle. Come sapete dalla storia, Microsoft ha un enorme successo, e questo successo cambia la storia di Seattle.
Nell’area di Seattle lavorano per Microsoft circa 40.300 persone, 28.000 di questi sono ingegneri impegnati in attività di ricerca e sviluppo. Possono sembrare numeri considerevoli. Ma come possono 40.300 posti di lavoro cambiare il destino di un area metropolitana di circa due milioni di abitanti?
A seguito del successo di Microsoft, l’appeal della città agli occhi di altre imprese tecnologiche cresce. La presenza di Microsoft determina una forte concentrazione a Seattle di ingegneri e programmatori, e l’arrivo di società di venture capital disposte a finanziare nuovi progetti d’impresa. Tanto che nel 1994 Jeff Bezos, che vive a New York, decide di fondare Amazon proprio a Seattle, dove ha la consapevolezza di trovare dipendenti di talento e finanziatori. Il successo di Microsoft innesca la creazione di un cluster dell’innovazione e la nascita o l’insediamento a Seattle di alcune migliaia di nuove aziende tecnologiche tra cui Expedia, RealNetworks, e Blue Origin.
La parte più interessante di quanto successo a Seattle grazie a Microsoft è che ciò ha avuto ripercussioni positive generando anche nuovi posti di lavoro per operatori dei servizi con grado di istruzione modesto. Secondo una ricerca di Moretti (2010) è riconducibile alla presenza di Microsoft la creazione di 120.000 posti di lavoro per addetti alle pulizie, tassisti, agenti immobiliari, carpentieri, proprietari di piccoli esercizi commerciali. E altri 80.000 posti di lavoro sono stati generati per lavoratori con laurea o specializzazione, come insegnanti, infermieri, medici e architetti. In sostanza per ogni nuovo posto di lavoro ad alto contenuto tecnologico/innovativo a Seattle si sono creati altri cinque nuovi posti di lavoro sia per professioni qualificate che non qualificate.
San Francisco — La Bay Area di San Francisco è a tutt’oggi un luogo molto costoso dove fare impresa. Elevati affitti, elevato costo della vita. Eppure quando Mark Zuckerberg concepisce Facebook nella sua stanza al dormitorio studentesco della Harvard University di Cambridge, in Massachusetts, non ci mette molto a decidere di trasferire la sua azienda nella Silicon Valley di San Francisco. La zona ha una forte presenza di altre aziende innovative e ciò la rende un luogo— un cluster dell’innovazione—dove è più semplice trovare dipendenti di talento e finanziatori. Così, per esempio, nel 2007 Mikkel Svane fonda a Copenaghen la società high-tech Zendesk. Nel giro di due anni però la trasferisce nell’area di San Francisco anche lui “per cercare finanziamenti e gente di talento”.
Detroit e Roechester — I cluster dell’innovazione non sono invincibili. Dipendono da alcune aziende capofila e dalla loro capacità di restare innovative o dall’arrivo di nuove generazioni di aziende innovative capaci di riempire il vuoto lasciato da quelle precedenti. Nei giorni d’oro dell’industria automobilistica Detroit era uno degli hub dell’innovazione più importanti degli Stati Uniti. Il difetto che ne ha fatto oggi una città oggi in forte difficoltà è stata l’incapacità delle aziende del settore auto di reinventarsi prima di giungere al punto di obsolescenza delle loro innovazioni. L’incapacità di riconvertire l’ecosistema Detroit in qualcosa di nuovo quando la città aveva ancora un ecosistema.
Similmente, negli anni Ottanta, Rochester, nello stato di New York, era un importante cluster dell’innovazione nelle tecnologie ottiche, con aziende come Xerox e Kodak (che all’epoca aveva 62.000 dipendenti), in quegli anni l’equivalente di Google o Apple, e due tra i principali produttori di brevetti negli Stati Uniti. Anche qui l’incapacità delle due aziende di restare innovative producendo qualcosa di unico e di valore ha determinato il declino di un’intera area urbana.
Boston — Negli anni Settanta Boston versava in una situazione economica drammatica, penalizzata da un’antiquata struttura manifatturiera e alta disoccupazione. Negli ultimi trent’anni però grazie ai posti di lavoro nel settore dell’innovazione biotecnologica e della finanza la città è rifiorita. Lo sviluppo del cluster dell’innovazione biotecnologica di Boston sfata un mito: che la presenza in città di un’università eccellente basti da se a avviare un volano innovativo. In base ad uno studio di Zucker e Darby (1998) non è infatti tanto la presenza di un’università, quanto la presenza di “star accademiche” in quell’università, ad attrarre ricercatori ed aziende in cerca di talenti formati da quelle star accademiche. Ed è stato solo con l’arrivo di alcune star accademiche del settore biotech nelle pur rinomate università cittadine che Boston ha trovato una svolta.
Los Angeles (Hollywood) — Ai primi del Novecento il cinema era un industria high-tech. Ma all’inizio, nel 1913, l’industria cinematografica USA era concentrata a New York, con piccole propaggini a Chicago, Philadelphia, Jacksonville, Santa Barbara e Los Angeles. L’evento chiave che determinò però, a partire dal 1915, il successo di Los Angeles come cluster dell’innovazione cinematografica fu il successo commerciale del controverso film, girato a Hollywood, La nascita di una nazione, prodotto e diretto da David Griffith. Film che incassò secondo alcune stime circa 20 milioni di dollari e che fece di Griffith un “imprenditore star” capace di attirare a Los Angeles i migliori talenti di tutti gli Stati Uniti.
Berlino (e di nuovo San Francisco)— Un mito inseguito da molti sindaci nel cercare di favorire la creazione di posti di lavoro nella propria città è quello (promosso da autori come Florida) che, per prosperare, una città deve attirare “creativi” e artisti, offrire una buona qualità della vita, ed aprire spazi museali; in sostanza che la città deve aumentare il proprio sex appeal. Berlino è un esempio di come quest’idea, per quanto diffusa sia imperfetta. Berlino, pur essendo divenuta dopo la riunificazione di gran lunga una delle città più interessanti e creative d’Europa, non è finora riuscita a dotarsi di una solida base economica. Una delle sue principali fonti di lavoro è il turismo, ma di fatto Berlino sopravvive perché la storia l’ha resa un polo di attrazione turistica e per gli ingenti trasferimenti di denaro che riceve come capitale dal resto della Germania. Senonché, dopo vent’anni di stile e tendenza, a Berlino l’offerta di creativi con elevato grado di istruzione sopravanza di gran lunga la domanda.
Un mito analogo a quello dell’ “attirare i creativi”, è quello dell’artigianato locale 2.0. Il quartiere di San Francisco in cui un tempo sorgeva la fabbrica della Levi’s è oggi pieno di botteghe in cui giovani alternativi in possesso di laurea producono prodotti artigianali di produzione locale: dagli alimenti, ai vestiti, alle biciclette, ai mobili. Si tratta di qualcosa di molto bello ma che non può fungere da motore per la crescita occupazionale di una città. Queste attività sono piuttosto il risultato di una ricchezza prodotta in qualche altro settore. Si tratta di un punto essenziale, il più delle volte mal compreso: nell’economia di una città dovrà esserci qualcuno che sborsi 40 dollari per magliette decorate a mano o 9 dollari per una tavoletta di cioccolato artigianale. Nel caso di San Francisco a farlo sono i lavoratori altamente qualificati e altamente pagati dell’industria high-tech.
Cosa può fare un sindaco — Anche da questi pochi esempi sembrano emergere alcune indicazioni per un sindaco interessato a favorire la creazione di posti di lavoro nella sua città.
In passato la presenza di un cluster manifatturiero ha determinato la prosperità di una città. Erroneamente la prosperità di una comunità viene quindi associata con la presenza di una industria manifatturiera locale.
In realtà più semplicemente—per un certo arco temporale—una industria manifatturiera locale è stato il modo con cui singole comunità hanno attratto ricchezza dal resto della nazione o del mondo—offrendo in cambio beni dalle caratteristiche uniche—e la hanno distribuita ai lavoratori di quell’industria e a quelli di contorno.
Oggi per attrarre ricchezza in una città (e quindi generare buoni posti di lavoro) la città deve favorire lo sviluppo e l’insediamento di aziende capaci di fare innovazione di valore per i propri clienti (offrendo di nuovo qualcosa di unico), attraverso un uso intensivo della componente umana, della creatività e dell’ingegno. A prescindere se poi la fase produttiva finale (manifatturiera) di quei prodotti avvenga nella comunità dove viene ideato e generato il valore aggiunto o avvenga altrove nel mondo.
Nel mondo accademico e nella politica esiste un dibattito ancora aperto su quanti posti di lavoro l’innovazione sia in grado di creare rispetto a quelli che invece contribuisce ad eliminare e se il saldo dell’innovazione in termini di posti di lavoro alla fine sia positivo o negativo. Per quanto mi riguarda ritengo convincenti gli argomenti (e i numeri) portati da chi ritiene che il saldo dell’innovazione alla fine sia positivo — almeno per chi la abbraccia, meno per chi la subisce soltanto.
Gli scettici dell’innovazione hanno ragione quando fanno notare che Facebook da impiego diretto a soli 1.500 dipendenti nella sua sede di Menlo Park e di altri 1.000 in varie parti d’America, mentre General Electrics e General Motors, imprese “manifatturiere”, hanno rispettivamente circa 140.000 dipendenti e 79.000. Ma Facebook è solo una piattaforma e la maggior parte delle applicazioni che la rendono interessante sono state create da altre società, per un totale—stimato in uno studio di Hann, Viswanathan e Koh (2011)—di almeno 53.000 posti di lavoro generati direttamente intorno a Facebook e altri 130.000 nei servizi collegati.
Apple a Cupertino ha circa 33.000 dipendenti. Ma per un effetto moltiplicatore, nella area metropolitana di San Francisco l’azienda dà da vivere a oltre 171.000 ulteriori posti di lavoro, 102.000 dei quali per figure non qualificate e 69.000 per mansioni qualificate. A Seattle, anche se ha il doppio dei dipendenti di Microsoft, Boeing, un’industria manifatturiera tradizionale, procura un numero di posti di lavoro collegati molto inferiore. Nella stima di Moretti (2010) 1,6 posti nei servizi locali per ogni addetto nell’industria tradizionale.
Il settore dell’innovazione, ad esempio negli USA, da lavoro “solo” al 10% degli americani. Ma anche l’industria manifatturiera, nel massimo della sua espansione, arrivò ad impiegare non più del 30% dei lavoratori americani. In una società moderna infatti la maggior parte dei posti di lavoro sono nei servizi locali. Servizi che però esistono se una comunità ha un “motore economico” che grazie all’innovazione produce qualcosa che il mondo vuole, e che attrae dal mondo ricchezza verso quella città.
La scintilla che da luogo alla nascita di un cluster dell’innovazione è spesso il successo di una prima azienda trainante. La difficoltà per una comunità, e per un sindaco, è quella di individuare imprenditori ed imprese promettenti di cui facilitare l’insediamento nel proprio territorio. E non sono pochi i casi di insuccesso da parte municipalità che ci hanno provato. Ne sono esempi i flop legati alle sovvenzioni per l’impianto di aziende produttrici di pannelli solari in Germania, Spagna e Stati Uniti. In questi casi l’errore è stato probabilmente l’investire in aziende che non avevano un reale vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti. Aziende connotate si dal crisma dell’innovazione ma non dal possedere un vantaggio competitivo difficilmente replicabile dai concorrenti.
Il ruolo delle amministrazioni cittadine nel promuovere la creazione di posti di lavoro è probabilmente meno importante di quanto pensi la maggior parte degli elettori e di quanto vogliano ammettere molti sindaci.
I casi di successo tuttavia esistono e sono quelli in cui i responsabili del programma avevano competenze da venture capitalist, e per questo il denaro pubblico e le facilitazioni sono stati rivolti ad aziende dotate di 1) capacità di fare innovazione di valore per i propri clienti (non necessariamente solo innovazione tecnologica, e non necessariamente solo nel settore manifatturiero), e al contempo dotate di 2) un vantaggio competitivo difficile da replicare per i concorrenti.
Nota — Gli esempi riportati sono tratti dal volume “La nuova geografia del lavoro” (Mondadori), di Enrico Moretti che all’Università di Berkeley si occupa di “labor economics and urban economics”. Volume che può costituire un buon punto di partenza per quanti sono interessati ad approfondire queste tematiche. Gli aspetti relativi a valutazione d’impresa in base a innovazione di valore e vantaggio competitivo si possono invece approfondire nei lavori di W. Chan Kim e Renée Mauborgne, Alexander Osterwalder, oltre ai classici contributi di Michael Porter e a quelli più recenti di Bruce C. Greenwald. — La prospettiva degli “scettici dell’innovazione” è invece esplorabile a partire dal libro di Tyler Cowen “The great stagnation”, o dal più recente libro di Riccardo Staglianò “Al posto tuo” (Einaudi).