[vc_row][vc_column][vc_column_text]I salvataggi
Questa storia assurda comincia alle tre di notte del 15 marzo, quando – stando a una ricostruzione fornita da giornalisti presenti sul luogo diffusa da Repubblica – la Ong spagnola Proactiva Open Arms riceve dalla Centrale operativa della guardia costiera italiana (IMRCC) una chiamata, con la quale viene segnalato un gommone in difficoltà a 26 miglia dalle coste libiche, quindi in acque internazionali. A partire da quel momento Open Arms viene impegnata nel soccorso di tre gommoni, tutti in acque internazionali, ricevendo nel frattempo telefonate dalla Guardia costiera italiana con le quali si dice sia di procedere al salvataggio sia che il comando delle operazioni sarebbe stato assunto dalla Guardia costiera libica (cosa mai avvenuta in precedenza e rispetto la quale non è stata diffusa alcuna informativa ufficiale, ha precisato Riccardo Gatti di Open Arms). Le diverse ricostruzioni non concordano pienamente sul susseguirsi dei fatti ma quello su cui concordano è che, durante la mattina successiva, la Guardia costiera libica – facendo ricorso a minacce di aprire il fuoco (qui un video) – abbia intimato a Open Arms di consegnare loro i migranti tratti in salvo, in particolare donne e bambini, salendo a bordo delle lance di Open Arms e intralciando i soccorsi. «La motovedetta libica – 648 Ras Jadir – inoltre, — ha scritto Annalisa Camilli — si è posizionata tra l’imbarcazione dei migranti e la nave dell’ong, impedendo alle lance di soccorso, che stavano distribuendo i giubbotti di salvataggio, di continuare il recupero». La motovedetta pare sia la stessa (648) ritratta il 15 maggio scorso, a Tripoli, durante la conferenza stampa con la quale si annunciava la riconsegna delle imbarcazioni, rimesse a nuovo, da parte del governo italiano a quello libico, alla presenza del ministro Minniti. E sarebbe la stessa motovedetta che già il 6 novembre scorso intralciò le operazioni di salvataggio condotte da Sea Watch 3.
Il tormentato arrivo in Sicilia
Dopo due ore di alta tensione, e a fronte del rifiuto dell’equipaggio di Open Arms di consegnare nelle loro mani le persone salvate, i libici si sono ritirati. La Ong a quel punto ha ripreso la navigazione, senza che Roma indicasse il porto nel quale recarsi: «la Centrale operativa della guardia costiera italiana – ha scritto Internazionale — ha atteso che il governo spagnolo chiedesse l’autorizzazione agli italiani per fare attraccare in un porto italiano la nave dell’ong che batte bandiera spagnola. “L’unità ong dirigeva verso nord-ovest, con i naufraghi a bordo, in attesa che lo stato di bandiera, la Spagna, come prevedono le normative internazionali, concordasse con uno stato costiero, il porto di destinazione dei naufraghi”, è scritto nel comunicato». Si tratta di una procedura – anch’essa — assolutamente inedita, nel senso che non era mai successo prima che l’Italia chiedesse l’intermediazione dello Stato di cui la nave batte bandiera. L’imbarcazione è quindi rimasta in uno stato di attesa nonostante le condizioni critiche delle persone salvate (una motovedetta maltese ha raggiunto la nave per prendere in consegna una bimba di tre mesi disidratata e con la scabbia e sua madre), finché il 17 marzo non ha finalmente avuto il permesso di attraccare a Pozzallo, con a bordo 157 uomini, 31 donne e 28 bambini. «Sei persone – ha scritto SkyTg24 — sono state ricoverate in ospedale: due donne in gravidanza, una con forti dolori perché picchiata all’anca prima di imbarcarsi, un uomo con diverse ustioni agli arti inferiori e due uomini con forte astenia e disidratazione».
Le accuse della procura di Catania
Una volta sbarcati, l’equipaggio è stato trattenuto e sentito dalla polizia, per accertare eventuali responsabilità. Per il procuratore di Ragusa, Fabio D’Anna, «si tratta del normale protocollo standard investigativo che viene attuato a seguito di ogni sbarco, con particolare attenzione alle dinamiche dei salvataggi per la disputa con la Guardia costiera libica». Poche ore dopo la procura di Catania, guidata dal procuratore Zuccaro, ha disposto il sequestro dell’imbarcazione, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mentre tre membri dell’equipaggio venivano raggiunti da un avviso di garanzia. Famiglia Cristiana scrive che sono «due gli elementi presentati in questa fase dal magistrato: i membri dell’equipaggio della nave responsabili della missione “decidevano arbitrariamente di continuare la ricerca e poi il soccorso degli eventi per i quali la Guardia Costiera Libica (le operazioni sono avvenute tutte in acque SAR [“search and rescue”, ovvero “ricerca e soccorso”, n.d.a.] libiche) aveva assunto il comando e quindi la responsabilità” e non sbarcavano i profughi salvati a Malta, chiedendo l’indicazione del Porto sicuro solo all’autorità italiana».
Una questione pratica
Emergono almeno due necessarie considerazioni. La prima riguarda l’esistenza di una zona Sar libica, che è di fatto subordinata all’esistenza di «un accordo concluso con altri Stati – scrive l’ufficio stampa dell’organismo internazionale indipendente che regolamenta la navigazione – e tale accordo dovrebbe essere presentato all’IMO (International Maritime Organization, n.d.a.) per la disseminazione». In sostanza, non si può stabilire unilateralmente una zona Sar, ma bisogna prima concordarla con gli altri stati rivieraschi e successivamente bisogna informare l’IMO. «Questo passaggio fino ad oggi non è avvenuto: “La Libia non ha inviato le sue informazioni”, ha assicurato l’ufficio stampa IMO a Famiglia Cristiana». Secondo Il Post – e per dare un senso a tutto quel che stiamo dicendo – il Maritime Rescue Coordination Centre libico (il luogo deputato al coordinamento dei salvataggi) «si trova a bordo della nave Tremiti della Marina militare italiana, ormeggiata nel porto di Tripoli. Il problema è che per l’IMO, l’agenzia dell’ONU che si occupa di diritto marittimo, questo centro non esiste: non lo ha riconosciuto in alcun modo e non compare nella mappa ufficiale dei centri MRCC curata proprio dall’IMO». C’è da dire che nell’agosto scorso (in contemporanea con la stesura del “codice Minniti”) la Libia dichiarò unilateralmente una zona Sar, per poi cambiare idea pochi mesi dopo.
Qui, inoltre, una serie di tweet prodotti dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione:
ASGI esprime sconcerto per l’avvenuto sequestro della nave della ONG @openarms_fund da ieri ormeggiata nel porto di Pozzallo (Ragusa) dove erano stati portati in salvo 218 migranti e per l’ipotizzato reato di associazione a delinquere per traffico internazionale dei migranti./1
— ASGI (@asgi_it) March 19, 2018
Per quanto riguarda la questione “Malta”, Fulvio Vassallo Paleologo ricorda giustamente che «l’11 ottobre 2013 per una questione di conflitto di competenza tra Malta e Italia morirono centinaia di persone e oggi è in corso un processo penale a Roma a carico di alti ufficiali della Marina». La priorità, in casi come questi, non può che essere quella di mettere in sicurezza le persone il prima possibile.
Una questione di umanità e di diritto umanitario
La seconda questione ha a che fare con i principi cardine del diritto e con l’umanità stessa, con la necessità di salvare persone che si trovano in una condizione di pericolo e con il divieto di respingerle verso paesi nei quali rischierebbero di subire tortura o trattamenti inumani e degradanti.
Il reato ipotizzato è infatti quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, eppure risulta evidente che nessuno sta cercando di varcare la frontiera italiana di nascosto, in quanto le persone salvate in mare sono state consegnate (come sempre) alle stesse autorità italiane e che avranno la possibilità di inoltrare ad esse domanda d’asilo. Inoltre e in ogni caso, come spiegato egregiamente da Andrea Maestri, «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo» (art. 54 del Codice penale). «Del resto la Cassazione – continua Maestri — ha chiarito che “E’ bene non dimenticare che in tali evenienze l’intervento di soccorso è doveroso, ai sensi delle Convenzioni internazionali sul diritto del mare (Convenzione di Amburgo del 27.4.1979, ratificata con L. n. 147 del 1989, e relativo regolamento D.P.R. n. 662 del 1984, ed art. 98, della Convenzione di Montego Bay), anche una volta avuto contezza dell’illiceità dell’immigrazione”». La stessa IMO, in una sua circolare del 2009, chiarisce che «se una persona esprime il desiderio di chiedere asilo, deve essere data molta importanza alla sua sicurezza. Di conseguenza, nel comunicare questa informazione, la stessa non deve essere condivisa con il paese di origine o con altri paesi nei quali la sua sicurezza potrebbe essere messa a rischio». Uno di questi paesi è senza ombra di dubbio la Libia (dove è stata documentata la presenza di centri di detenzione dove i migranti vengono torturati o venduti come schiavi) e di conseguenza non si capisce per quali ragioni l’equipaggio di Open Arms avrebbe dovuto consegnare persone in fuga dalla Libia a rappresentanti delle forze di sicurezza libiche.
Respingimenti con altri mezzi?
Nello scorso settembre il Commissario per i diritti umani mandò una lettera al ministro Minniti per chiedere – in sostanza – se l’Italia non stesse operando respingimenti con altri mezzi, e cioè affidandoli alla Guardia costiera libica, senza sporcarsi le mani e aggirando perciò alcuni principi cardine del diritto internazionale assolutamente inderogabili, per i quali non c’è codice di condotta che tenga. Su tutti, l’articolo 3 della Cedu, secondo il quale «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti» e l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra secondo il quale « Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo (in qualsiasi modo!, n.d.a.), un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
Chiarezza
Mi auguro sinceramente che la giustizia faccia il suo corso, che si vada fino in fondo nel tentativo di dimostrare il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e che così si metta un ulteriore punto fermo in questo dibattito pubblico che ha finito per criminalizzare chiunque compia atti di solidarietà.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]