Qualche giorno dopo i dubbi sollevati dalla Commissione europea sulla “spending review” contenuta nella legge di stabilità cerchiamo di fare luce su un mistero italiano: che fine ha fatto Carlo Cottarelli? Ma soprattutto che fine hanno fatto le sue raccomandazioni sulla revisione della spesa?
Il suo testamento da vivo l’ha scritto lo scorso 30 Luglio. Non era ancora emersa, in tutto il suo fragore, la rottura definitiva del rapporto fra Carlo Cottarelli e il governo. Il commissario alla Revisione di Spesa, nominato da Letta e — carta alla mano — in carica per tre anni, ha lasciato a fine Ottobre il suo incarico per tornare al Fondo Monetario Internazionale. Solo lo scorso Luglio aveva scritto parole certamente pesanti, parole che avrebbero dovuto far scattare una molla nel dibattito pubblico. Cottarelli, sul blog del sito revisionedellaspesa.gov.it, criticava la prassi di autorizzare nuove spese con l’indicazione “che la copertura sarà trovata attraverso future operazioni di revisione della spesa o, in assenza di queste, attraverso tagli lineari delle spese ministeriali”. E citava i casi della Legge di Stabilità 2014, del decreto legge sulla Pubblica Amministrazione.
L’allarme era concreto: “le risorse che deriveranno dalla revisione della spesa per il 2015 non potranno essere usate per la riduzione della tassazione”. Una situazione che lui stesso definiva “paradossale”: stando all’incertezza derivante dalle difficoltà di effettuare la spending review, i futuri tagli della revisione di spesa in realtà saranno tagli lineari, proprio ciò che si vorrebbe evitare. Per giorni il ballo delle percentuali: per i ministeri veniva prospettato un hair-cut del 3%. Tutto ciò è durato sino all’incontro del 9 settembre a Palazzo Chigi, quando Cottarelli e Renzi si sono seduti allo stesso tavolo. Da un lato, i tagli lineari sembravano essere scongiurati; dall’altro, la dipartita di Cottarelli è divenuta ufficiale.
Il presidente del Consiglio, durante l’estate, ha più volte lanciato strali contro i “tecnici” della “Prima Repubblica”. “Basta lezioni dai tecnici”, ha detto a Settembre, in conclusione della Festa de l’Unità. Nel frattempo, a Cottarelli, i ‘burocrati’ dei ministeri non davano neppure le carte: “la mattina, spesso, mi chiedevo: che ci faccio qui?”. Per il cremonese con la faccia da americano (cfr. Severgnini) sono state messe a disposizione le migliori risorse del settore: due collaboratori part-time, due pensionati, uno della Corte dei Conti, uno della Banca d’Italia.
Vi sarete chiesti: Cottarelli aveva torto o ragione? La revisione della spesa non sembra aver dato buoi frutti. La figura del Commissario, che nella narrazione giornalistica ha la faccia dura di uno sceriffo, è svilita dal fatto che la politica non segue le indicazioni ricevute. E’ davvero così? Proviamo a scendere nel particolare.
Nel Decreto Madia sulla pubblica amministrazione (n. 90/2014), messo all’indice da Cottarelli nel citato post di Luglio, i futuri tagli di spesa che deriverebbero dalla Spending Review sono impiegati per finanziare i pensionamenti dei funzionari anziani. Le pubbliche amministrazioni potranno mandare a riposo i loro dipendenti a 62 anni, purché abbiano l’anzianità massima. Si tratta di uscite anticipate di 4 anni rispetto al limite di 66 anni. L’onere aggiuntivo per le casse dello Stato (quantificato in 2,6 milioni per l’anno 2014, 75,2 milioni per l’anno 2015, 113,4 milioni per l’anno 2016, 123,2 milioni per l’anno 2017 e 152,9 milioni a decorrere dall’anno 2018 — art. 1 c. 6 DL 90/2014) è stato ricavato dalla modifica del comma 427 art. 1 Legge 147/2013, ovvero la Legge di Stabilità, nella parte in cui si prevedono la “razionalizzazione e revisione della spesa”, il “ridimensionamento delle strutture, di riduzione delle spese per beni e servizi, nonché di ottimizzazione dell’uso degli immobili” della pubblica amministrazione. E’ abbastanza facile intuire che le somme disposte per i prepensionamenti sono fittizie, non ci sono, sono rimandate alla Revisione di Spesa che pure ha tutte le difficoltà di questa Terra per venire alla luce. I denari saranno ricavati da tagli lineari, è la denuncia di Cottarelli. E per giunta saranno impiegati non per le finalità previste in origine — abbassare la tassazione sul lavoro — bensì per la spesa previdenziale.
Va da sé che Cottarelli si è soffermato solo sulla liceità dell’operazione dal punto di vista giuridico, ma non ha calcato la mano dal punto di vista politico. Avrebbe potuto dire che la spesa pubblica è già fortemente sbilanciata sulle pensioni. Che ci siamo dimenticati di indirizzare un po’ di risorse verso la scuola, per esempio. Era da ribadire quanto individuato già dal ministro Giarda con la prima relazione sullo stato della Spesa Pubblica: scuola e università hanno perso 3,5 miliardi di spesa fra il 2009 e il 2011 (1). L’annuncio di 30 mila assunzioni nella scuola può sembrare un cambio di rotta, ma è francamente insufficiente: l’Italia è stato l’unico paese OECD negli ultimi sedici anni a tagliare le spese per istruzione (2). Di fronte a questo progressivo e perdurante disinvestimento in istruzione, qualche assunzione è poco più di un’aspirina. E poi: che dire della penuria di personale del sistema giudiziario? Qualcuno ha considerato l’incidenza della spesa sanitaria, sempre crescente dalla modifica costituzionale del Titolo V? Ci si è posti il problema del perché scuola e sanità sono affidate a due diversi livelli di governo? Il differente potere negoziale delle parti politiche coinvolte è la causa più probabile della divergenza nella spesa fra sanità e scuola (3). Una revisione di spesa non può non essere accompagnata da un progetto di riorganizzazione delle competenze legislative fra centro e periferia.
Sebbene i principi enunciati da Giarda nel 2012 — Reduce, Reorganize, Retrenching — siano lo spettro di una politica di contrazione della spesa pubblica — che è prociclica della fase deflazionistica — la giungla (cfr. Cottarelli) inestricabile della PA è come il grasso vitello sacro dell’opportunismo politico e dei rapporti clientelari. La mappa delle società Partecipate è l’esatto spettro di questa definizione. Il quadro delineato dal commissario ha però il difetto di essere a tinte unite: perdendosi nell’assioma che pubblico equivale ad inefficienza, vengono enunciati criteri per una possibile revisione che tenderebbero però a penalizzare i piccoli comuni. “Le partecipate devono avere una certa dimensione minima per giustificare i costi fissi connessi alla loro detenzione”, è scritto nel rapporto Programma di razionalizzazzione delle partecipate locali (4). Lo slogan coniato da Renzi, #municipalizzate da 8000 a 1000 (ricordate? sembra trascorso un secolo), si scontra però con alcune situazioni di fatto che, per non far fallire questo tentativo di razionalizzazione, andrebbero prese in esame.
“Ci sono una montagna di partecipate e di enti da abolire, chiudere, sopprimere”, scrive Marco Boschini su Il Fatto Quotidiano (5), ma ci sono “tantissime partecipate nate non per far accomodare un deputato a fine carriera su una qualche comoda poltrona di un Cda, ma per rispondere alle esigenze dei cittadini”. Boschini critica questa tendenza a considerare tutto ciò che è pubblico inefficiente e maleodorante e “se ci fosse il mercato di mezzo, altro che servizi deludenti”. Il mercato non è risolutivo, specie per i settori marginali e lo Stato deve intervenire, in funzione regolativa, per garantire i servizi ai cittadini. Il sistema dovrebbe essere orientato a permettere a tutti l’accesso al bene comune. Qui la spending review non può che operare a fin di bene, non può che premiare quelle partecipate che rispondono davvero alla domanda di servizi e per far emergere e prevenire invece il malcostume della proliferazione delle partecipate inutili. Alcune di esse “sono state create per aggirare il patto di stabilità” e tale distorsione sembrerebbe già sufficientemente trattata dalla Legge di Stabilità con l’obbligo di accantonamento per l’ente proprietario (6). Ma, avverte Cottarelli, forme aggregate di gestione dei servizi pubblici dovrebbero essere favorite tramite un meccanismo legislativo nei “casi in cui la popolazione totale dei comuni raggiunga una certa soglia”. E sono circa 3000 le scatole vuote, 1300 con un fatturato inferiore a 100 mila euro, i cui consigli di amministrazione sono più numerosi del totale dei propri dipendenti. Qui bisognerebbe colpire: non i piccoli comuni bensì le “piccole società, con il sospetto che molte siano state create principalmente per dare posizioni di favore a qualche amministratore o dipendente”. Eppure, piuttosto che affrontare il gorgo delle partecipate inutili, il rapporto fra Cottarelli e il governo si è definitivamente incrinato.
Sitografia
(1) Le spese del Miur per l’Istruzione scolastica nel periodo 2009–2011 sono scese del 4,86%, quelle per l’istruzione universitaria del 10,56%; le spese per la ricerca addirittura del 14,74%, fonte: Rendiconto Generale dello Stato.
(2) Education at a Glance 2014, OECD — http://www.oecd.org/edu/eag.htm
(3) Elementi per una revisione della spesa pubblica, P. Giarda, 2012 — http://bit.ly/1tCJUtb
(4) Programma di razionalizzazzione delle partecipate locali, 7 Agosto 2014 http://bit.ly/1qNK3de
(5) Società partecipate, la parte buona del paese, M. Boschini, Il Fatto Quotidiano, 1 Settembre 2014
(3)I commi da 550 a 552 dell’art. 1 della Legge di Stabilità 2014 prevedono che, qualora le aziende speciali, le istituzioni o le società presentino un risultato d’esercizio o un saldo finanziario negativo [1], gli Enti locali soci siano obbligati ad accantonare nell’anno successivo, in apposito fondo vincolato, un importo pari al risultato negativo non immediatamente ripianato, in misura proporzionale alla loro quota di partecipazione.