«La strategia segreta contro le Ong». Titola così il pezzo di copertina di Internazionale di questa settimana che, pubblicando una lunga inchiesta firmata da Zach Campbell e Lorenzo D’Agostino per The Intercept, torna a investigare le relazioni tra le Ong che compiono salvataggi nel Mediterraneo centrale e lo Stato italiano. Dai documenti in possesso dei giornalisti emergerebbe qualcosa di nuovo, e cioè che il percorso che ha portato alla criminalizzazione delle Ong (ricorderete tutti l’estate del 2016) non fu casuale e non fu estemporaneo. Gli autori dell’inchiesta, infatti, prendono le mosse dall’ottobre del 2013 e dal lancio dell’Operazione Mare Nostrum voluta dal governo Letta a seguito della tragedia di Lampedusa. In quell’occasione, Franco Roberti, allora direttore della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna), lanciò una seconda operazione, «riservata: una serie di incontri coordinati tra i vertici della polizia, della marina, della guardia costiera e della magistratura. Sotto la guida di Roberti, questi incontri sono andati avanti per quattro anni e hanno coinvolto rappresentanti di Frontex, di Europol, dell’operazione Sophia e perfino delle autorità libiche». Prosegue l’inchiesta:
Nel primo incontro, organizzato nell’ottobre del 2013, Roberti disse ai partecipanti che gli uffici dell’antimafia di Catania avevano sviluppato un metodo innovativo per affrontare il traffico di migranti. Trattando i trafficanti libici come avevano trattato i mafiosi italiani, gli inquirenti potevano rivendicare la giurisdizione sulle acque internazionali oltre i confini italiani. Secondo Roberti questo significava poter finalmente salire a bordo e sequestrare le imbarcazioni in alto mare, condurre indagini e usare le prove in tribunale. […] La guardia costiera italiana e gli inquirenti si erano convinti che i trafficanti facessero affidamento su queste operazioni di salvataggio per portare a termine i loro piani. Di conseguenza, secondo l’antimafia, chiunque agisse come membro dell’equipaggio o inviasse una richiesta d’aiuto da una barca carica di migranti poteva essere considerato complice dei trafficanti libici e soggetto alla giurisdizione italiana. […] I documenti relativi a più di una decina di processi […] mostrano procedimenti basati soprattutto su testimonianze di migranti a cui è stato promesso un permesso di soggiorno in cambio della collaborazione. In mare i testimoni sono interrogati dalla polizia poche ore dopo il salvataggio, spesso quando sono ancora in stato di shock dopo essere sopravvissuti a un naufragio. […] Roberti ha confermato che i libici hanno partecipato ad almeno due incontri della Dna, e di aver personalmente incontrato Bija in Libia un mese dopo la pubblicazione del rapporto del Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’anno dopo, la commissione sulla Libia del Consiglio di sicurezza ha sottoposto Bija a sanzioni, congelandone i beni e vietandogli di spostarsi all’estero.
In definitiva, quel che emerge dall’inchiesta è un quadro assolutamente preoccupante, all’interno del quale le Ong — rivendicando il loro dovere di limitarsi al salvataggio di persone in difficoltà — non potevano che essere elementi di disturbo, problematici per un approccio investigativo di questo tipo. L’inchiesta pubblicata da Internazionale — che invitiamo a leggere per intero — fa quindi emergere tutta un’altra prospettiva nella lettura delle accuse a loro rivolte, passate attraverso fantomatici finanziatori della “sostituzione etnica”, collusioni con i trafficanti, volontà di turbare l’ordine democratico del Paese, e quindi manifestatesi in conseguenti sequestri, codici di condotta e pene del tutto sproporzionate e inique.