È crollata così, un flusso di frantumi di centinaia di migliaia di metri cubi di ghiaccio, la parte terminale del fronte del ghiacciaio Tourtmann, in Svizzera. Gli sbalzi termici delle ultime settimane sono stati decisivi per portarci via un altro pezzo di storia naturale, nel silenzio che segue un grosso tonfo.
Nelle stesse ore vi era grande preoccupazione attorno al sorvegliato speciale del Planpincieux, 500 mila metri cubi che nella caduta potevano finire per investire parte dell’omonima frazione di Courmayeur. Le condizioni precarie e in peggioramento del ghiacciaio hanno determinato lo sfollamento di 75 persone, la sera del 7 agosto. Per ora il pericolo sembra scampato, forse fino alla prossima ondata di caldo.
I ghiacciai si muovono da sempre, dicono gli esperti glaciologi: ma non a questa velocità, non con la frequenza a cui assistiamo oggi. Il punto è sempre lo stesso: l’accelerazione. Il mancato recupero fra un evento e l’altro. Un equilibrio spostato ineluttabilmente verso la perdita delle condizioni climatiche precedenti l’arrivo dell’industrializzazione.
Varrebbe la pena ragionare oltre l’immediatezza legata all’incolumità delle persone: i ghiacciai che si sciolgono provocano danni ed alluvioni, ma sono soprattutto il sintomo di una malattia cronica e silenziosa, difficile da collegare alla sopravvivenza.
Con buona pace dei negazionisti che etichettano di allarmismo i movimenti per il clima come Fridays For Future ed Extinction Rebellion, ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi è che i ghiacciai se ne vanno a causa del riscaldamento globale, a volte silenziosamente, retrocedendo sempre di più ogni estate, altre volte in modo molto rumoroso, come nei casi di quest’anno e dell’anno scorso a Zermatt, sempre in Svizzera.
La realtà non guarda in faccia a giornalisti prezzolati, governanti negazionisti, al comparto oil&gas, né ai profitti stellari dei big del carbone. Lo spiega bene ISPRA, l’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che ha presentato in giugno l’“Annuario dei dati ambientali 2019”.
Nel 2018, a fronte di un aumento medio globale di 0,98 gradi centigradi, in Italia si è registrato un aumento di 1,71 gradi. La temperatura media in Italia cresce più che in altre parti del mondo, inclusa quella dei mari. Siamo e saremo sempre più soggetti ad eventi estremi (Palermo, ma anche Brescia, Alessandria… Solo per parlare dell’ultimo mese) con relativi danni a persone, città, strade, agricoltura.
Milioni di euro di danni, tra ricostruzioni e mancate entrate economiche. Nello stesso Annuario, vengono riportate le condizioni in cui versano flora e fauna, minacciate sia da inquinamento e perdita di habitat, che dalle specie aliene (alloctone, importate da altre zone, che spesso prevalgono per adattabilità sulle specie autoctone) il cui ingresso è facilitato dai continui scambi globali e dall’aumento delle temperature.
Nel rapporto si legge che solo il 48% dei fiumi italiani versa in buono stato, mentre per i laghi si scende al 20%. Sul versante particolato sospeso, nel 21% delle stazioni si sforano i limiti giornalieri per il PM10, confermando il triste primato padano di aria peggiore d’Europa.
Gli unici trend positivi riguardano i gas serra che vedono un calo globale rispetto agli anni novanta (i CFC sono stati banditi nel 1989) e le fonti rinnovabili per le quali con i 18,3% dei consumi l’Italia ha raggiunto l’obiettivo europeo 2020 del 17%. Ma c’è poco da festeggiare: per la sua conformazione e la posizione geografica, l’Italia risentirà più di altre zone degli effetti negativi del riscaldamento globale. Ondate di caldo, siccità ed incendi boschivi saranno intensificati ed alternati ad alluvioni e frane. Come se già non fossimo un Paese ad alto rischio idrogeologico.
A maggior ragione occorre quindi diventare portabandiera, farsi catalizzatori della decarbonizzazione dell’economia, puntare decisi su questa direzione, anche con investimenti pubblici consistenti, magari proprio a partire dal Recovery Fund (Greta lo chiede qui: https://climateemergencyeu.org/ #FaceTheClimateEmergency)
E invece? Invece spesso è proprio chi oggi amministra il pubblico ad insistere su miopi e sorpassate scorciatoie, continuando a costruire autostrade che chiamano il consumo di fossili del trasporto merci e persone, convertendo ed ampliando gli aeroporti al traffico cargo anziché scegliere di ammodernare le reti ferroviarie locali.
Anche se non ce ne accorgiamo quando scendiamo a comprare il pane sotto casa, le emergenze principali a cui dare risposte coordinate sono due: il collasso climatico e la sesta estinzione di massa, ovvero la perdita verticale di biodiversità. È tempo di disegnare progetti di opere pubbliche e infrastrutture che abbiano l’obiettivo di ridurre entrambi gli impatti.
Chiara Bertogalli