E’ sempre molto difficile tentare, a poche ore di distanza, l’analisi di un voto che in pochi si aspettavano, sia in termini di affluenza che in termini di risultato numerico. Alla felicità, spero condivisa da tutti, per la larghissima partecipazione dei cittadini al voto, va affiancata una riflessione che eviti di scivolare nei soliti luoghi comuni di queste ore; li vediamo abbondare, sulla stampa, ad opera dei super-mega-direttori che hanno già dimostrato, nei giorni scorsi, di non saper cogliere il clima nel paese.
Proverei a partire dalla realtà che conosco meglio, quella in cui vivo e che politicamente conosco: la Sardegna. Una regione che ha visto una partecipazione altissima rispetto alle sue medie (10 punti sopra le regionali, 20 punti in più rispetto alle europee) e una larghissima vittoria del No, con il 72%; risultato diffusi in maniera sostanzialmente omogenea su tutto il territorio, dalle città alla Sardegna rurale, passando per i comuni più popolosi della cinta urbana del capoluogo.
Non mi pare sia dunque premiata l’analisi che vede le aree urbane in controtendenza rispetto a quelle rurali (chiave di lettura fondamentale nella “brexit”) e neppure la colossale sovra-rappresentazione del voto Salviniano (in Sardegna fondamentalmente non esiste e così pure in molte aree del sud, dove pure il NO ha stravinto). Anche il gradimento del M5S, che alle politiche aveva toccato il suo picco con il 30%, non è minimamente in grado di spiegare quel 72%, pur avendo sicuramente contribuito al risultato.
Probabilmente è proprio sbagliata la chiave di lettura “partitica” del voto referendario, che non coglie quanto accaduto con la libera espressione dei cittadini su almeno due fronti: un giudizio di merito sulla riforma (ed in particolare nell’Isola sulla riforma del titolo V) ed un giudizio politico sul Governo fortissimamente cercato dal Premier, che vi ha impostato tutta la campagna del Sì spendendo negli ultimi 15 giorni praticamente tutti i ministri sull’isola. Chiedere un voto politico sul Governo in un Isola ed in un Paese in cui il malessere sociale è altissimo è rischioso, farlo con la spocchia di presentarsi come quello che ha fatto ripartire il Paese rischia di essere deleterio.
Sbagliano le forze politiche che pensano di intestarsi il 60% del No ed appaiono altrettanto velleitarie e miopi le letture che assegnano il 40% del Sì al Presidente del Consiglio. Leggere un voto di popolo con queste chiavi vuol dire non capire la straordinaria mobilitazione al voto, le tante persone libere che si sono espresse a prescindere dai vincoli partitici, le mobilitazioni spontanee che abbiamo visto in questi mesi. La politica che ancora una volta prova a dare letture politiciste di una realtà che ancora una volta è stata incapace di leggere.
A guardare bene i dati appare inverosimile anche la teoria del populismo dilagante, del voto di pancia ed antisistema. Non è realistico pensare che nella città capoluogo gli elettori siano illuminati e coscienziosi quando premiamo la riconferma di Zedda al primo turno e diventino improvvisamente populisti e demagoghi quando il No vince con il 70%. E non è serio pensare che, in quello che per mesi è stato definito assieme a Milano il laboratorio del nuovo centrosinistra, circa il 30% degli elettori sia classificabile alla voce “populisti di destra, antieuropeisti e vogliosi dello sfascio”.
Forse banalmente non esiste nessun laboratorio e il voto amministrativo premia la qualità amministrativa. Forse, ancor più banalmente, gli elettori in larga parte di sinistra nella città ritenevano pasticciata la riforma, inaccettabile la messa in discussione dell’autonomia sarda e irritante la supponenza del #bastaunsi come ricetta salvifica.
Ci sarebbe da riflettere sul voto giovanile che premia il No con percentuali bulgare: pensiamo siano anche questi dei sempliciotti populisti o ragioniamo sul fatto che la meglio gioventù del Paese si sente come un leone in gabbia, con preclusa ogni possibilità di crescita ed affermazione personale?
Esiste in tutto il Paese ed in particolare al Sud e nelle Isole un fortissimo malessere sociale, una rabbia nel sentirsi abbandonati da una politica tutta occupata a guardarsi l’ombelico, incapace di dare risposte alle diseguaglianze crescenti e prodiga di slogan e bonus che non risolvono nulla.
Se la politica sarà capace di fare questo, forse la finiremo di dover etichettare come populismo ogni malessere, come protesta ogni richiesta di ascolto. Questo è il compito di una sinistra moderna e di governo: dare risposte, dare speranza ad un Paese raggomitolato su stesso. O sarà la sua estinzione nel panorama politico.