La pandemia non ferma il consumo di suolo: questa è l’amarissima considerazione a fronte dei dati aggiornati al 2020. Qualora fossero mantenuti i ritmi di consumo monitorati dall’inizio degli anni 2000, le previsioni per i prossimi anni saranno ancora peggiori.
I numeri del consumo di suolo, drammatici dovrebbero come minimo obbligarci ad un’azione più incisiva per fermarlo: le nuove coperture su suolo vergine hanno riguardato altri 57,5 km2 nell’ultimo anno con una media di 16 ettari al giorno mentre l’impermeabilizzazione è cresciuta, complessivamente, di 22,1 km2.
Siamo purtroppo ben lontani dagli obiettivi europei, che prevedono l’azzeramento del consumo di suolo netto (ovvero il bilancio tra il consumo di suolo e l’aumento di quelle superfici che ritornano ad essere naturali) attraverso gli interventi di rinaturalizzazione, il desealing o le demolizioni.
E mentre nel resto d’Europa con la pandemia ancora in corso le considerazioni ambientali sono entrate di diritto nelle riflessioni per il futuro, da noi si passa il tempo a parlare e discutere senza una direttiva chiara e ben precisa da seguire.
Questo anche a fronte del fatto che il consumo di suolo in molti paesi europei è già stato affrontato con una normativa decisamente vincolante mentre da noi l’assoluta mancanza di una normativa seria e rigorosa sta favorendo un incremento che non mostra segnali di rallentamento e che, in linea con i rilevamenti del passato, conferma la perdita di quasi due metri quadrati di suolo al secondo.
Emerge inoltre che il consumo di suolo è maggiore nelle zone già fortemente compromesse, dove invece di limitare il consumo e incentivare la rinaturalizzazione si continua a costruire consumando suolo vergine: quasi la metà del suolo perso nel corso degli ultimi 12 mesi si trova nelle città, mentre un 12,5% in aree centrali o semicentrali e i restanti 32% nelle zone periferiche e meno dense.
Questo contribuisce a creare le cosiddette “isole di calore”, facendo diventare le nostre città sempre più calde. Durante il periodo estivo la differenza di temperatura tra un centro abitato e le zone rurali è di due gradi. E questa differenza contribuisce e si innesta all’interno dei meccanismi derivanti dai cambiamenti climatici.
La Regione con i numeri più preoccupanti è il Veneto, seguito dalla Lombardia, dalla Puglia, dalla Sicilia e dall’Emilia-Romagna. Alla Liguria purtroppo spetta il triste primato di essere la Regione con il valore più alto di suolo consumato tra le aree a pericolosità idraulica.
Come sempre i dati confermano che le prime ad essere “consumate” sono le aree naturali e quelle agricole: per le prime si registra un + 61,5 ettari consumati in calo rispetto all’anno precedente. Altri dati ulteriormente preoccupanti invece ci vengono dalle zone più a rischio del paese: quelle identificate a rischio idrogeologico e a pericolosità idraulica media o quelle a pericolosità franosa o a pericolosità sismica. Anche le coste non se la passano assolutamente bene.
Il consumo di suolo in queste aree, che meriterebbero ben altre tipologie di interventi, vanno ad aumentare i danni che si potrebbero verificare in caso di eventi meteorologici estremi, sempre più frequenti e in aumento per la quantità di acqua scaricata a terra.
Alle aree agricole perse corrisponde una ricaduta sui livelli di produzione. Nel periodo 2012 – 2019 sono stati persi 3.700.000 quintali di prodotti: 2 milioni e mezzo di quintali di prodotti da seminativi, 710.000 dalle foraggere, 266.000 dai frutteti, 200.000 dai vigneti e 90.000 dagli oliveti, con un danno economico di quasi 7 milioni di euro.
Qualche anno fa fece scalpore l’ammontare del debito pubblico che ogni neonata e ogni neonato si ritrovano in culla appena nati. Ecco, dobbiamo iniziare ad aggiungere anche 355 m2 di suolo che perde la sua funzione primaria per colpa di cemento e asfalto. A fronte della riduzione di natalità, è come se avessimo 135 m2 di suolo perso in culla per ogni nato nel 2019.
La radice di queste conseguenze è sia culturale che legislativa. Purtroppo con un ritmo di consumo ai livelli attuali si è portati a stimare il nuovo consumo di suolo in 1.556 km2 tra il 2020 e il 2050 mentre nella peggiore delle ipotesi, con i ritmi di consumo censiti agli inizi degli anni 2000, raggiungeremmo quasi 8.000 km2. Una vera e propria tragedia per il futuro del nostro paese.
Al consumo vero e proprio poi si aggiungono anche altri aspetti di cui preoccuparci e su cui concentrarci: il degrado del suolo dato dai cambiamenti del suolo, la frammentazione degli habitat, l’erosione, la perdita di produttività, fattori che compromettono anche i servizi ecosistemici.
Tutte questioni che oggi vengono ignorate dal cosiddetto Governo dei migliori, ma che torneranno ahinoi prepotentemente d’attualità al prossimo violento nubifragio che si abbatterà sul bel paese.