La colpa è sempre degli altri. È colpa di Civati, ed è colpa di Cofferati, ed è colpa di Pastorino, ovviamente. È colpa loro in Liguria, è colpa loro anche in Veneto, ed è colpa loro anche in Umbria. Se non fosse stato per loro, il Partito Democratico avrebbe continuato a vincere, anzi, a stravincere, pur senza curarsi delle dimensioni della rappresentanza (e cioè dell’astensionismo), delle alleanze, dei programmi elettorali. Tutti argomenti che non interessano più, rimpiazzati dalla conquista del potere.
È tutta colpa loro, che fino a ieri non contavano nulla, ed erano da insultare, asfaltare, spianare, nonostante segnalassero da mesi un “problema a sinistra”. Un problema che si è manifestato in queste ore, attraverso la freddezza dei dati assoluti, che annebbiano completamente “la retorica del 40,8%”. Una retorica che abbiamo sempre contestato, perché non accompagnata da politiche e metodi di gestione del partito che aiutassero a stabilizzare e consolidare quel consenso. Un consenso che si è cercato di recuperare attraverso sfilate di ministri, comparsate di Matteo Renzi e argomento del voto utile.
I numeri assoluti, invece, ci raccontano di un PD in crisi di elettori. Una crisi lenta, cominciata anni fa, e che prosegue con una diaspora invisibile, che “emerge” solamente con l’abbandono di qualche “big”.
Prendiamo tre regioni: la Liguria (perché qui si concentra la retorica #colpadiCivati e #colpadiPastorino), il Veneto (dove il risultato della candidata PD è stato molto al di sotto delle aspettative) e la Toscana (dove il PD ha conseguito il miglior risultato in termini percentuali, 46%).
Siccome è troppo facile contestare i voti al singolo partito sostenendo che conta il voto della coalizione, quindi anche quello delle liste civiche (su queste liste torneremo poi…), teniamo conto del risultato del candidato presidente (o delle coalizioni, per le politiche) nelle ultime elezioni. Solamente per il 2014 faremo necessariamente riferimento al PD, che in quelle elezioni si presentava da solo e che ha assorbito un po’ tutto quello che stava ai suoi fianchi.
I risultati sono questi:
I trend si assomigliano molto, in tutte e tre le regioni: gli elettori che hanno scelto la coalizione a guida PD nel 2015 sono meno di quelli che la scelsero alle regionali 2010, meno di quelli che scelsero Italia Bene Comune alle politiche del 2013, meno di quelli che scelsero il PD alle europee del 2014.
Rimanendo sullo stesso tipo di elezioni, il confronto con le regionali del 2010 è impietoso: in Liguria si passa da oltre 400mila voti a meno di 200mila, in Veneto da oltre 700mila a meno di 500mila, in Toscana da oltre un milione a 650mila, e così anche nelle altre regioni. In Liguria, il PD (da solo) passa da oltre 200mila voti a 137mila voti.
Questa è la diaspora che ha colpito e che continua a colpire il centrosinistra, e che lo modifica nel proprio codice genetico, perdendo categorie che storicamente ha rappresentato (vedi i mondi vicini al sindacato, vedi gli insegnanti) e scommettendo su categorie (e quindi priorità programmatiche) storicamente alternative, e per questa ragione anche più volatili, e difficilmente raggiungibili se anche sui territori non si creano alcune condizioni (il confronto tra Europee e Regionali in Veneto, in questo senso, non lascia spazio a dubbi: da quasi 900mila voti a 472mila voti per la coalizione guidata da Moretti, a 275mila per il PD).
Questa è la vera sconfitta. Una sconfitta che – per rimanere in Liguria – neppure l’assenza della candidatura di Pastorino avrebbe evitato, né in termini di rappresentanza né in termini elettoralistici: il voto delle liste collegate a Pastorino, infatti, non è sufficiente a coprire il gap Toti – Paita (60mila voti contro 35mila), e pensare che gli elettori si muovano a comando da una candidatura all’altra è francamente insensato e irrispettoso (in assenza di Pastorino alcuni avrebbero votato M5S, o altre liste, o sarebbero stati a casa – facendo crescere ancor di più l’astensionismo).
L’ultima riflessione è da dedicare alle liste collegate alla candidatura del presidente. Di un presidente, in particolare: Vincenzo De Luca. Nel momento in cui è scoppiata la discussione sui candidati impresentabili (prima che la Commissione Antimafia annunciasse alcunchè), il premier Matteo Renzi commentava: «Con grande chiarezza dico che il Partito Democratico nelle sue liste per le regionali non ha alcun impresentabile». Il riferimento, per nulla velato, era alla Campania, e agli impresentabili, che venivano definiti come residuali, non eleggibili: «Sono quasi tutti espressioni di piccole liste civiche che grazie al sistema elettorale delle singole regionali vengono assemblate per prendere un voto in più». Queste liste, al contrario di quanto sostenuto da Renzi, sono state assolutamente determinanti per la vittoria di De Luca: degli 859mila voti ottenuti dalle liste collegate alla sua candidatura, 422mila derivano dal PD (19,5%). L’altra metà da Campania libera (102mila), De Luca Presidente (100mila), Centro Democratico – Scelta Civica (60mila), UDC (50mila), PSI (44mila), Campania in Rete (31mila), Davvero-Verdi (25mila) e IDV (25mila). E il distacco tra De Luca e Caldoro è stato di circa 60mila voti.