[vc_row][vc_column][vc_column_text]Un decreto, il “decreto sicurezza bis” che si pone esplicitamente al di sopra della normativa internazionale e che, consapevolmente, sembra proprio voler aprire uno scontro con il diritto e la prassi del salvataggio in mare. «Tra le principali misure introdotte — si legge nel comunicato diramato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri — vi è l’attribuzione al Ministro dell’interno» del «potere di limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale […] per motivi di ordine e di sicurezza pubblica, ovvero quando, in una specifica ottica di prevenzione, ritenga necessario impedire il cosiddetto “passaggio pregiudizievole” o “non inoffensivo” di una specifica nave se la stessa è impegnata – limitatamente alle violazioni delle leggi in materia di immigrazione – in una delle attività elencate dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Convenzione di Montego Bay – UNCLOS)».
Tradotto: il Ministero dell’interno può vietare l’accesso alle acque territoriali a navi che hanno compiuto operazioni di soccorso in mare, adducendo motivi di ordine e di sicurezza pubblica. «In caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane — si legge nel secondo articolo del decreto -, notificato al comandante e, ove possibile, all’armatore e al proprietario della nave, si applica a ciascuno di essi, salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 50.000. In caso di reiterazione commessa con l’utilizzo della medesima nave, si applica altresì la sanzione accessoria della confisca della nave, procedendo immediatamente a sequestro cautelare».
Dopo la campagna Twitter di “chiusura dei porti”, siamo a un punto di svolta: il Consiglio dei Ministri — e, nel caso, il Parlamento — si assumeranno la responsabilità di un provvedimento chiaramente in contrasto con le norme internazionali che disciplinano il soccorso in mare e, il ministero dell’Interno, quella della notifica del divieto. Non più tweet, ma note.
Continua, perciò, l’odissea della Sea Watch 3, bloccata oramai da 5 giorni appena oltre le acque territoriali italiane, al largo di Lampedusa. A bordo, dopo lo sbarco autorizzato di 10 migranti per ragioni mediche, restano 43 persone: 3 sono minori, uno di loro ha meno di 12 anni. «La Libia — rispondono dalla Ong — è internazionalmente non riconosciuta come un porto sicuro e lo dice la stessa missione Onu in Libia, l’Unhcr, la commissione Europea, la nostra Farnesina, lo stesso nostro ministro dell’Interno in tv lo scorso 25 maggio e il presidente libico Al Serraj».
Sono almeno due le annotazioni necessarie di fronte all’ennesima prova di forza sulla pelle delle 43 persone che si trovano a bordo dell’imbarcazione. La prima riguarda la loro effettiva capacità di minacciare l’ordine e la sicurezza del paese: 43 persone saranno mai in grado di farlo? E allora è evidente che la finalità del divieto non ha a che fare tanto con la nostra sicurezza, quanto con una propaganda impazzita, fuori da ogni controllo. La seconda riflessione riguarda il ruolo delle Ong: come abbiamo ripetuto più volte, è necessario riaffermare che non possono essere poste di fronte alla scelta tra rispettare la legge (per quanto sbagliata) e compiere quello che a tutti gli effetti sarebbe un respingimento collettivo, quindi un atto contrario al diritto umanitario. [/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]