Uno dei temi più caldi nel panorama politico italiano degli ultimi anni è la disaffezione degli elettori nei confronti dei partiti e delle istituzioni. L’evidente scollamento tra i vertici e la base dei vari partiti è senz’altro tra le cause principali di questa disaffezione, di cui l’astensionismo è sintomo sempre più evidente. Al punto che anche tra coloro che continuano ad eleggere speranzosi i propri rappresentanti, sono in pochi, oramai, a sentirsi rappresentati.
Il paradosso è che una rappresentanza senza rappresentati si svuota di significato, è un simulacro senza più un’anima. E non è un caso che a prendere piede nella nostra società siano modelli di partecipazione che risvegliano la voglia di protagonismo civico di un popolo sempre più disilluso.
E i politici come rispondono, a questa grande questione? Per quanto possa apparire incredibile, l’impressione è che i partiti cosiddetti tradizionali stiano prendendo coscienza solo ora della gravità di questa situazione.
Eppure non era così difficile da prevedere; i segnali c’erano tutti da tempo.
La chiave era, ed è tuttora, in due semplici parole: democrazia interna.
Tema che tuttavia resta drammaticamente assente dal dibattito pubblico tra i politici.
Poche frasi retoriche di circostanza nei talk-show, qualche riflessione superficiale suggerita dall’avanzata dei movimenti di protesta e nulla più.
Ma se un partito come il PdL deve la sua crisi di consensi più che altro alla lenta dissoluzione della leadership del suo padre padrone, un partito come il PD sta pagando lo scotto di una fondamentale promessa non mantenuta: quella di rappresentare i valori dell’uguaglianza e della partecipazione. Dopo aver basato sull’aggettivo ‘democratico’ la sua stessa costituzione, il PD ha finito col rinchiudersi ogni giorno di più in una torre d’avorio, lontana da tutto e tutti.
Al punto che viene spontaneo domandarsi quanti dirigenti del Partito Democratico, all’indomani dell’ennesima, inaspettata batosta rimediata nelle ultime elezioni, siano andati con la mente allo Statuto del loro partito. Che comincia così:
Capo I
Principi e soggetti della democrazia interna
Articolo 1.
(Principi della democrazia interna)
E al comma 2 recita:
Il Partito Democratico affida alla partecipazione di tutte le sue elettrici e di tutti i suoi elettori le decisioni fondamentali che riguardano l’indirizzo politico
Ebbene quale parte del programma, negli ultimi due anni, è stata affidata alla partecipazione di elettrici ed elettori?
Quali decisioni fondamentali, come le doppie larghe intese (prima Monti, ora Letta-Alfano), la dissoluzione dell’alleanza con Sel, l’elezione del Presidente della Repubblica — culminata con l’affossamento di Romano Prodi nelle famigerate “idi di aprile” dei 101 — sono state decise con la partecipazione di elettrici ed elettori?
L’impressione è che non basti indire le elezioni primarie (non a caso carenti proprio dal punto di vista programmatico) o rapide parlamentarie sotto l’albero di Natale, per considerare archiviata la pratica della democrazia interna nel proprio partito. Sono le modalità di incubazione e sviluppo delle idee, i meccanismi decisionali a costituire l’ossatura di una sana democrazia interna.
Eppure non ne parla praticamente nessuno. La consultazione del proprio elettorato di riferimento, o il tradimento del mandato elettorale affidato non sono temi all’ordine del giorno.
Troppo scomodo, evidentemente, per chi deve sopravvivere politicamente, come la dirigenza di un PD che negli ultimi anni ha continuato a dilapidare il patrimonio di voti a disposizione.
Ma le grandi battaglie non si combattono soltanto per convenienza. Alcuni principi cardine non sono negoziabili.
Chi oggi, nel PD, non parla della fondamentale questione della democrazia interna, o non vede il problema o è parte integrante del problema stesso.
In questo silenzio assordante, Giuseppe Civati è il solo ad alzare la voce in tal senso, sostenendo la centralità di un’ampia partecipazione di iscritti ed elettori alla vita decisionale del partito. “Rovesciamo lo schema”, va dicendo da mesi nelle piazze italiane, convinto com’è che sia la collettività a dare forma ed anima ad un partito. Come recita appunto lo Statuto del PD, disatteso da anni.
Anni spesi a criticare il partito padronale di Silvio Berlusconi. Senza accorgersi che tra la monarchia di un leader e l’oligarchia di una classe dirigente le differenze sono praticamente inesistenti.