Per l’anno 2014, l’UNHCR ha rilevato oltre 42 milioni il numero di persone sfollate (sia all’interno dei propri confini nazionali, che oltre confine, quindi “rifugiati”) e aventi bisogno di assistenza. Un numero altissimo di per se, ai livelli della Seconda Guerra Mondiale. Chiediamoci allora cosa spinge queste persone a muoversi. Principalmente guerra, violenza, dittature, terrorismo. Negli ultimi anni, purtroppo, abbiamo assistito a un aumento della violenza globale: le nuove guerre colpiscono in maniera sempre più preponderante la popolazione civile, senza distinzione di sorta: scuole, ospedali e amministrazioni pubbliche sono bombardate. I bambini rapiti e trasformati in carnefici, le donne stuprate. Le foto di Kobane parlano da sole. Le nuove guerre colpiscono a macchia d’olio regioni enormi, non lasciando ad alcuno la possibilità di identificare zone sicure: non lasciando altra alternativa che la fuga nei paesi vicini. E’ una situazione che l’opinione pubblica, e quindi spesso anche la politica, considera raramente, perlopiù in concomitanza con qualche dramma alle nostre porte legato al fenomeno migratorio, o quando qualche operatore umanitario o giornalista viene rapito o colpito. Di conseguenza, analizzando le migrazioni con un approccio riduttivo ed urgentista, magari spinto dall’emozione del momento come spesso è stato fatto in questi giorni, non si riesce a comprendere nel pieno il problema. E quindi non si riesce a proporre soluzioni adatte e sostenibili nel lungo periodo.
Prima di dichiarare un’emergenza o un “esodo” bisogna sottolineare che le disparità nell’accoglienza sono impressionanti: nella sola Turchia sono ospitati quasi 2 milioni di siriani, un numero 4 volte superiore a quelli ricevuti in questi ultimi mesi in tutta Europa; oltre 1 milione è stato accolto in Libano. L’aiuto è un dovere umano, oltre che un diritto riconosciuto alle persone in fuga. E l’accoglienza generosa, le numerose iniziative, gli sforzi per assicurare a queste persone un viaggio ed un riposo migliore, di gran lunga superiore alle manifestazioni razziste, sono la prova che l’Europa ha basi solide di fratellanza e solidarietà. Accoglienza, tolleranza e fratellanza sono inoltre i messaggi migliori che si possano mandare alle forze che stanno destabilizzando il Medio Oriente. E se da una parte il messaggio di accoglienza farà aumentare l’afflusso di persone, dall’altra contribuirà a combattere i messaggi di odio con cui i jihaidisti reclutano per aumentare le loro fila, contrariamente a quanto credono alcuni politici. Spesso i rifugiati, ammassati ai confini dei propri paesi di origine in conflitto (il 25% dei rifugiati nei paesi limitrofi alla Siria è minorenne), sono facili preda per il reclutamento in milizie che cercano di sfruttare i sentimenti di vendetta, alimentando la spirale di odio e violenza. Ancor di più, i giovani europei emarginati, soggetti a rischio dei messaggi di odio degli estremisti, avranno elementi contrastanti a portata di mano: la guerra non è un gioco come si fa loro credere, l’Europa non è contro l’Islam, la jihad contro Roma, Berlino o Parigi è un atto oscurantista. La solidarietà combatte il terrorismo e porta un messaggio di pace.
Il vero problema che ci appare in questi giorni quindi, letto attraverso un numero enorme di rifugiati, non è un migliaio di migranti in più o in meno in uno o l’altro paese. Non è tantomeno il diritto di asilo europeo. Quando decine di migliaia di disperati sono ripetutamente vittime (della guerra prima, degli strozzini e trafficanti di uomini poi e di qualche opportunista e reazionario all’arrivo) è già tardi. Quando Aylan e la sua famiglia salgono su un barcone è già troppo tardi.
Il centro del problema è la guerra, la causa della fuga di tutte queste persone. L’Italia, all’Articolo 11 della sua Costituzione, ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; la Siria era un paese ricco di cultura, moderno; L’Afganistan è stato tradito a più riprese; l’Iraq e la Libia sono stati smantellati con cognizione di causa.
L’unica vera risposta nel lungo al dramma dei rifugiati è una coerente politica centrata sulla pace. Ogni altra soluzione è temporanea ed illusoria. Lo stallo politico-militare legato al conflitto siriano non si risolverà aumentando la quantità di bombe che cadranno sui civili, come purtroppo in molti (Hollande tra gli altri) hanno fatto intendere e richiesto recentemente; non cambierà nemmeno mandando altre truppe sul terreno per imitare l’intervento russo. Afghanistan e Iraq sono là per ricordarcelo. Il Medio Oriente è troppo pieno di armi di cui noi europei siamo tra i primi produttori e fornitori. Intervenendo militarmente si darebbe ancora una volta l’immagine di un attacco all’Islam, fomentando risentimento e giocando il ruolo voluto dai jihadisti. Sospendiamo i programmi militari inutili e costosi, mandiamo un messaggio di pace e liberiamo risorse di cui c’è grandissimo bisogno. E’ indispensabile impegnarsi seriamente verso una soluzione politica del conflitto, che rimane possibile come altri difficili accordi nella regione sono stati raggiunti recentemente; al tempo stesso limitando i fattori che alimentano la guerra, come i traffici di armi e denaro.
Bisogna osare di più per la pace e reinvestire i soldi risparmiati in educazione, cultura, sviluppo. Insieme ai profughi si può pensare di proteggere anche la storia e la cultura siriane: non limitarsi a ricordare Khaled al-Assad ma onorarne concretamente la memoria accogliendo intellettuali, storici, archeologi attraverso la nostra rete universitaria in collaborazione con Unesco. Soprattutto bisogna assicurarsi che una generazione di siriani non perda l’opportunità di avere un’educazione, per partecipare alla ricostruzione della Siria e prevenire la ripetizione perpetua del ciclo della violenza. L’educazione è infatti un elemento chiave per la stabilizzazione dei conflitti e la prevenzione della guerra. Al recente meeting di Oslo sull’Educazione nel mese di luglio, le cifre fornite da Malala Yousafzai sono impietose: bastano 8 giorni di spese militari, equivalenti a circa 39 Miliardi di USD, per fornire a milioni di bambini fino ai 12 anni di età un’educazione gratuita di qualità. E l’educazione per i bambini, tra i rifugiati, ha un valore enorme.
Pace e disarmo globale e aumento dei fondi per educazione sono due battaglie decisamente politiche, per non dire ideologiche, che aiuterebbero nel lungo termine a (ri)costruire un nuovo concetto di civiltà, aiutando migliaia di persone nel mondo e contribuendo a riportare l’Italia verso un ruolo di primo piano nell’assemblea delle nazioni. Incominciando magari promuovendo e sostenendo il movimento #UpforSchool, per aumentare la pressione sui governi per aumentare il finanziamento per l’Educazione.
Chissà, se Aylan ed il suo fratellino avessero trovato una scuola in uno dei paesi che hanno attraversato, forse oggi sarebbero ancora con noi.