Nel processo di marginalizzazione del lavoro, una responsabilità crescente la stanno assumendo le Pubbliche Amministrazioni che, oltre ad avere moltissimi precari nei loro organici, sempre più spesso appaltano servizi senza prestare la dovuta attenzione alle condizioni dei lavoratori.
Da un lato, infatti, la PA assume come criterio prevalente – se non unico – l’abbattimento dei costi, dall’altro le ditte appaltatrici, non di rado grossi player internazionali, tendono a scambiare diritti con qualche euro in più in busta paga nel tentativo di superare, nei fatti, i contratti nazionali, mettendo nell’angolo i sindacati. Si favorisce l’intercambiabilità dei ruoli nei luoghi di lavoro a discapito della professionalità e, a ogni nuovo appalto, si decurta il numero di ore per singolo lavoratore, spingendo redditi già esigui – nell’ordine dei 700 euro mensili per 20/25 ore settimanali — sotto la soglia di povertà.
Un caso emblematico si segnala a Trieste, dove la Dussmann, multinazionale della ristorazione, nuovo gestore dal 2016 dell’appalto delle mense scolastiche comunali, al suo subentro ha operato un taglio lineare del 15% alle ore lavorate delle cuoche, ha ridotto a 20 h settimanali l’impiego degli aiuto cuoche e addirittura a 15 h quello degli addetti mensa. L’effetto immediato è stato triplice: impoverimento ulteriore di lavoratrici e lavoratori, ritmi di lavoro cresciuti spesso al limite dell’insostenibilità, drastico calo della qualità dei pasti erogati ai bambini delle scuole d’infanzia e primarie.
Di fronte alle rimostranze di lavoratori, sindacati e genitori l’azienda si è difesa asserendo di rispettare l’appalto alla lettera. Il problema è che formalmente ha ragione, anche se c’è un trucco, un paradosso. Tecnicamente si tratta di un appalto con l’offerta economicamente più vantaggiosa, in cui gli aspetti qualitativi avrebbero un peso rilevante, ma in pratica è come se fosse un appalto al massimo ribasso. Le aziende, infatti, sono brave a presentare sulla carta offerte tecniche e servizi di alto livello, che presuppongono anche professionalità e ore lavorate adeguate, giocandosi così la fornitura sull’offerta economica al ribasso, che vale il 40% del punteggio.
Nel caso triestino, per esempio, benché venisse richiesto nel bando un rapporto utenti/lavoratori al momento del pasto superiore rispetto al passato, la Dussmann ha presentato sì un progetto che garantiva maggior presidio, ma a costi minori. Come? Tagliando le ore alle lavoratrici storiche, più onerose in termini di costo orario, e sostituendole con lavoro in somministrazione, più economico (e ancor più precario). Risultato: lavoratrici a 15 ore settimanali, con meno di 400 euro di stipendio, sotto la soglia di sopravvivenza. Un problema sociale nato sotto l’egida del pubblico, un controsenso.
Le testimonianze dirette delle lavoratrici consegnate alle colonne del quotidiano di Trieste, Il Piccolo, descrivono drammaticamente la situazione. Carmela Babuscio, 63 anni, addetta mensa: “Ero riuscita in dieci anni di duro lavoro a conquistare un contratto da 8 ore al giorno, adesso di ore alla settimana ne faccio 15 e mi porto a casa solo 400 euro”. Luciana Frausin 44 anni, anche lei addetta al servizio mensa: “Sono passata da 31 a 15 ore con un’ora e mezza di straordinario non stabilizzato. Il mio stipendio è passato da 1.250 a circa 537 euro e per me è cambiato tutto”. Sonia Siega, cuoca da 25 anni: “Lavoriamo anche nelle pause, c’è chi arriva mezz’ora prima per riuscire a portare a termine il lavoro o se ne va più tardi per lasciare tutto pulito”. Marisa Lapagna nelle cucine da 18 anni: “I ritmi sono incessanti e si continuano a fare straordinari che non vengono stabilizzati. Il sistema non regge più”.
Naturalmente ne risente anche la qualità del cibo e del servizio. Ne sono consapevoli i genitori della scuola primaria Luigi Mauro dell’Istituto comprensivo San Giovanni, scesi in campo a fianco dei lavoratori con una petizione sottoscritta da più di un centinaio di famiglie: “Se siamo quello che mangiamo — dicono — non è accettabile allora che ci siano una ‘buona scuola’ e una cattiva mensa”.
Mobilitazioni e scioperi avevano prodotto lo scorso marzo l’impegno della Dussman a incrementare strutturalmente le ore lavorate e quello del Comune ad ampliare la gamma dei servizi da affidarle, ma ora tutto è tornato in alto mare. “Sia la Dussmann che il Comune devono rivedere le loro posizioni – dice Matteo Zorn, sindacalista della UIL fortemente impegnato nella vertenza. All’azienda chiediamo l’integrale applicazione dell’accordo sottoscritto un mese fa, al Comune servizi aggiuntivi. È l’unico modo per recuperare una situazione diventata insostenibile”.
Guardando la questione da un punto di vista più generale, il caso triestino, tutt’altro che raro, avrebbe potuto continuare a consumarsi nel silenzio, nell’inconsapevolezza se non nel disinteresse del contesto sociale in cui si è prodotto e questo non è accettabile. E’ necessario ritornare a dare una dimensione realmente collettiva alle problematiche del lavoro, invertendo la tendenza all’isolamento e alla parcellizzazione di categorie e lavoratori, alla de-sindacalizzazione, al “divide et impera” che ci ha resi tutti più vulnerabili e più poveri, oggi e in prospettiva. La risposta non può che essere politica, non solo in termini di proposte e di leggi che riequilibrino i rapporti di forza ma anche nel senso del coinvolgimento della polis, della comunità. Perché, tenendo in mente l’”effetto farfalla”, è chiaro che dallo sfruttamento e dalla compressione dei diritti anche di un solo lavoratore nel più distante villaggio dell’impero possa derivare uno tsunami che investe direttamente la vita e i diritti di tutti.
Leo Brattoli