Ve la ricordate la Commissione Attali? La “Commissione per la liberazione della crescita” voluta da Sarkozy nel 2007 e incaricata di riflettere per alcuni mesi, in assoluta indipendenza, sulle riforme necessarie per il rilancio della crescita economica?
Il Rapporto finale stilato dalla Commissione, comprensivo di 316 proposte, fu consegnato al Presidente francese nel gennaio del 2008. Oltre a contenere alcuni principi che Attali svilupperà in seguito (Positive Economy) già si parla di misurare lo sviluppo dei Paesi, sganciandosi dal parametro (spesso bugiardo) del Pil (in realtà prevedendo che diventi solo uno dei 29 diversi parametri per misurare il grado di sviluppo). Secondo la prima stima dell’“Indice Attali”, nel 2015, al primo posto, tra i Paesi appartenenti all’Ocse, c’era la Svezia, Francia 19-esima, Italia 32-esima, la Grecia ultima al 34-esimo posto.
Fra gli indicatori troviamo le “inégalités de revenus” (le disuguaglianze di reddito), mobilità sociale e numero di donne in Parlamento. Sarebbe importante però, a questi indicatori, aggiungere un’appendice (o un indicatore supplementare) quella che riguarda il differenziale del reddito fra uomo e donna che svolgono lo stesso lavoro: il Gender Pay Gap(GPG).
Il Global Gender Gap Report 2017 presentato a Davos (*), ci ha mostrato un quadro poco rassicurante: l’indice che misura lo scarto tra uomini e donne pone l’Italia all’82° posto su 144 Paesi.
Il GPG tra uomini e donne in Italia è del 17,9%. Questo divario salariale comporta che le donne lavorino ‘gratis’ per 66 giorni su 365, quindi fino all’8 marzo circa…
Spesso si citano i dati che Eurostat (**) diffonde ogni anno. Ci sono però due fattori determinanti a rendere quel dato poco attendibile o poco utile al confronto con gli altri Paesi. Il primo è che i dati Eurostat tengono insieme il settore pubblico con il settore privato e, in Italia rispetto al resto dei Paesi europei, nel pubblico impiego non esistono aumenti personalizzati ma scatti di anzianità. Col risultato di abbassare notevolmente il divario salariale tra uomini e donne nel settore pubblico: 4,4%, uno dei più bassi (anche se resta ingiustificabile). La media fra pubblico e privato (il 55% dei dipendenti del pubblico impiego sono donne) porta ad un GPG del 5,3%. Un dato dopato positivamente da questa singolarità italiana e dal part time (spesso non volontario) che anche in altri Paesi trova larga diffusione (pensate ai mini jobs tedeschi) ma che, qui da noi, riguarda prevalentemente le donne, senza contare l’elevata incidenza dei lavori atipici, rendendo la base di confronto sul tempo pieno meno rappresentativa in questa frammentata realtà.
Secondo la Banca d’Italia l’aumento dell’occupazione e dei salari delle donne sarebbe un volano per l’economia italiana. Tenendo in conto che un più alto reddito familiare facilita la fecondità. Dove le donne lavorano di più, infatti, nascono anche più bambini e non il contrario. Un tema che andrebbe posto al centro dell’agenda politica del governo.
L’Islanda che ha imposto per legge la parità salariale (e già può vantare il GPG più basso al mondo, sempre secondo i dati presentati a Davos) prevede di annullare il divario entro il 2022. Ci sono iniziative per colmare il divario fra salari anche in Germania, qualcosa si è mosso negli USA nel secondo mandato di Obama, una grande accelerazione s’è vista nel Regno Unito dopo il terremoto alla BBC, di fine 2017, causato dalla giornalista Carrie Gracie che, giustamente, chiedeva l’applicazione dell’Equality Act risalente al 2010.
In Italia la campagna elettorale è volata molto più in basso di questi importantissimi temi, né i programmi né il Contratto siglato dai partiti di governo menzionano il GPG. L’unico ‘gender’ che conoscono è quello (della teoria) che non esiste. Ad oggi c’è solo l’articolo 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006 n.198 (ex art. 9 L. 125/91) che riguarda una porzione di lavoratori minoritaria.
“Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta”.
Possibile nella passata legislatura fece delle proposte in questo senso, che andavano ad incidere sulla quotidianità e cercavano di ridurre le disparità. Una sulla “Tampon Tax”, per ridurre l’IVA al 4% su questo tipo di prodotti igienico-sanitari considerandoli a tutti gli effetti dei beni essenziali.
L’altra proposta sul divario retributivo, proponendo che le imprese e le organizzazioni siano tenute a garantire la trasparenza e la pubblicità della composizione e della struttura salariale della remunerazione dei propri dipendenti, comunicando con chiarezza esclusivamente l’appartenenza di genere e la composizione salariale. In questo modo di ogni azienda si può facilmente conoscere quanti uomini e donne siano assunti e quale sia il loro livello di retribuzione.
Inoltre si proponeva la modifica dell’articolo 80 del codice degli appalti, in modo tale da aggiungere tra le cause di esclusione dalla partecipazione alle gare anche il mancato rispetto della parità salariale tra lavoratori e lavoratrici.
Stefano Artusi
(*) Il Global Gender Gap del World Economic Forum misura la parità (o disparità) di genere su quattro dimensioni: Economic Participation and Opportunity, Educational Attainment, Health and Survival, Political Empowerment. Un indice globale GGG di cui il GPG è solo uno degli indicatori.
(**) Eurostat misura il GPG sui dati pubblici (in Italia sono obbligati a pubblicarli solo nel settore pubblico e le aziende dai 100 dipendenti in su).