[vc_row][vc_column][vc_column_text]Ricorre la settima giornata nazionale del Fiocchetto Lilla, dedicata alle patologie da disturbi del comportamento alimentare. La data, però, non è ancora istituzionalizzata, come avevamo chiesto con una proposta di legge presentata l’anno scorso da Luca Pastorino e altri. L’ADI (Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica) ha dichiarato l’anno scorso che nel nostro Paese sono 3 milioni i giovani che soffrono di disturbi del comportamento alimentare, di cui oltre il 90% sono donne. Il numero di decessi in un anno per anoressia nervosa si aggirano tra il 5,86 e 6,2%, tra 1,57 e 1,93% per bulimia nervosa. Continuiamo a insistere sull’importanza di evitare il silenzio sul tema, silenzio che per chi soffre e per le famiglie coinvolte non fa che rendere tutto ancora più difficile, come la banalizzazione dei disturbi e la superficialità nel trattarli.
Come se si potesse banalmente spiegare nel senso di rifiuto per il cibo o tuffo a capofitto, sino quasi a non poterne del cibo. Come se il problema fosse questa avversione, questo profondo amore e odio alternato. Come se il cibo fosse tutto il male del mondo o, al contrario, il male che non vogliamo ci possa mai fare il mondo. Il male che già sentiamo e che ci imprigiona fino ad essere il protagonista dal primo all’ultimo respiro della giornata. E non è mai il corpo quello su cui focalizzare l’ attenzione ma il mondo che si è scatenato dentro quel corpo, i pensieri che si rincorrono e si avvinghiano tra loro e scatenano dentro quel corpo una guerra senza quartieri.
L’ingestibile: disertare la tavola oppure occuparla, correre, correre sino a non poterne più, e poi crollare e rialzarsi e piangere e urlare, per poi ri-iniziare, il giorno dopo, lo stesso rito, la stessa dispensa, le stesse urla, la stessa voglia di auto-scarnificarsi.
Sentirsi una pietra pesante ma vuota oppure leggeri come fino a scomparire e da lì una sorta di onnipotenza con l’orgoglio interiore e la fierezza di sfoggiare quell’osso che ti spunta tra i seni.
E un dolore, un dolore che neppure il pianto, giorni mesi e anni di pianto riescono a lavarti via. Quel dolore che non sai cosa è, ad un certo punto, non lo sai più o non lo hai mai saputo, perché sei diventat* tutto questo e dentro non hai quasi più niente che ti faccia sorridere ancora.
E non sai spiegarlo e non trovi quasi mai qualcuno che lo capisca, che capisca perché quel pezzo di pane ingurgitato per sbaglio ha scatenato quelle tue urla e quei cazzotti sulle gambe, a ripetizione per rimuovere l’orrido male che potrebbe farti, perché nessuno sente che tu urli dentro ogni istante anche quando a quelle urla non hai la forza di prestare la voce.
E se dalle prigioni si può scappare molto difficilmente, da se stessi non si può scappare mai, o almeno finché qualcosa non ti fa cessare di essere l’aguzzino di te stesso.
E di certo non ti ha aiutato di questa società consumistica il tendere a compiacere e compiacersi, l’elogiare un fondoschiena più di una poesia di Montale o il dover sembrare anziché l’essere, l’essere se stessi in qualunque forma lo si possa essere ed il poter sopravvivere agli eventi anche quando non si è la studente perfetta, la figlia perfetta o quando non si ha la famiglia perfetta, la condizione sociale perfetta o l’orientamento sessuale, religioso, culturale o altro perfetto, quello che la società si aspetta da te o che la società ritiene, con una parola dal significato relativo e banalmente assurdo, normale.
Alcuni studiosi hanno definito questi disturbi sostenendo che il rifiuto del cibo è soprattutto un’incarnazione del rifiuto dell’Altro: una maniera per difendersi, per tagliare i ponti da un Altro minacciante, invasivo, quando non addirittura persecutorio. L’anoressia la bulimia ed il binge sono malattie vere e proprie che possono esprimere più condizioni interiori e che si ripercuotono anche e a volte gravemente sul fisico e sulla salute e l’integrità della persona.
C’è bisogno di supporto, di psicologici, di nutrizionisti e di gruppi di aiuto, di associazioni, di strutture e di fondi per sostenere chi ne soffre, perché qualcuno li accompagni per mano e li aiuti a vivere quella vita di cui si stanno privando ed uscire da quella galera anche se hanno perso le chiavi della cella. Perché nessuno si rifugi nel silenzio, perché solo dalla cura delle persone e dal mutuo aiuto nascono le migliori società possibili.
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