Ieri Marco Simoni, consulente economico alla Presidenza del Consiglio, su Il Post ha provato a spiegare perché la riforma costituzionale sia tra le riforme economiche più importanti che verranno fatte dal governo Renzi.
Per farlo prende spunto dall’ottimo lavoro di Acemoglu e Robinson “Perché le nazioni falliscono?” dove gli autori argomentano come il successo o l’insuccesso economico di un paese dipenda dalla qualità delle istituzioni politiche ed economiche che i cittadini scelgono di adottare. Utilizzando esempi del lontano passato o molto attuali, i due economisti dimostrano che le differenze nel reddito e nella qualità della vita tra le nazioni più ricche e quelle più povere sia dovuto alla qualità delle istituzioni che questi paesi hanno sviluppato più o meno pacificamente. Istituzioni dove il potere politico era meno concentrato, dove il governo era accountable nei confronti dei cittadini, dove tutti (o quasi) potevano cogliere opportunità economiche sono ciò che caratterizza i paesi più ricchi.
La teoria è ragionevolissima, siamo tutti d’accordo che corruzione, burocrazia, lentezza del sistema giudiziario e instabilità politica siano dei freni allo sviluppo di un paese.
Secondo Simoni il declino dell’Italia, e la lunga crisi, sono dovute non solo alla recessione mondiale ma ad un problema idiosincratico dovuto alla pessima qualità delle nostre istituzioni. In particolare “l’impianto istituzionale italiano, combinato con l’evoluzione europea e globale dell’economia, ha prodotto un sistema politico centrato sulle rendite di posizione, sui monopoli di potere territoriale che hanno reso l’élite politica sostanzialmente inamovibile per circa quattro lustri. La politica ha così esercitato una formidabile capacità di escludere, piuttosto che includere, i cittadini sia dalle istituzioni che dal successo economico e personale”.
La “casta” (in tutte le sue declinazioni) e l’assenza di meritocrazia hanno spremuto il paese, disincentivato l’impresa (in senso ampio) e rallentato o bloccato la crescita in tutti i settori.
Simoni conclude che: “Dunque è necessario, per stimolare innovazione e crescita, aumentare trasparenza, responsabilità, contendibilità del potere e indebolire la possibilità di costruire cordate e gruppi ristretti che, per loro natura, si giovano di opacità e mancanza di controllo.” Difficile non essere d’accordo, lo diciamo in tanti da anni.
Il problema, secondo me, arriva quando Simoni elenca i provvedimenti del governo Renzi come provvedimenti in linea con questa ricetta che dovrebbe rimettere in moto la crescita. Le riforme economiche in senso stretto come il Jobs Act o la trasformazioni delle banche popolari in SpA ma anche, e soprattutto, quelle istituzionali.
Il Jobs Act ha aumentato ulteriormente la flessibilità in un mercato, quello del lavoro, che lo era già diventato con la Riforma Fornero. Non ha però, al momento, dato garanzie sulla protezione dei disoccupati ed in compenso non ha eliminato la dualità (o segmentazione) che è universalmente riconosciuta come un problema del nostro mercato del lavoro. Un contratto veramente unico a tutele crescenti (ho in mente la proposta Boeri Garibaldi), forse avrebbe ridotto questo problema.
La trasformazione delle (grosse) Banche Popolari in SpA, a parte i tempi e i modi decisamente criticabili, forse avrà il merito di aver imposto le regole del mercato a società quotate in borsa ma che venivano gestite con una governance diversa dalle altre aziende sugli stessi listini. Rimangono dubbi sui rischi di speculazione e sui reali effetti sulla crescita economica del paese.
Non dimentichiamo anche che lo Sblocca Italia, purtroppo, ha consolidato le rendite di alcune imprese concessionarie proteggendole da una sana concorrenza e incentivato, in maniera poco lungimirante, le trivellazioni nel paese del sole quando ormai produrre energia rinnovabile è diventato molto efficiente.
Altri settori rimangono un po’ dimenticati dall’onda riformatrice del governo. Ci siamo dimenticati della Spending Review del povero Cottarelli. Sulla corruzione non si è ancora concluso molto. La burocrazia (per aprire un’impresa ad esempio) o altre barriere all’entrata (tipo gli ordini professionali) non vengono toccati.
E ha ragione Simoni quando evidenzia la rilevanza economica delle riforme istituzionali che dovrebbero andare nella direzione di uno snellimento procedurale, di una maggiore trasparenza e di una maggiore accountability della classe politica.
Era opinione molto condivisa che fosse necessaria una riforma del nostro bicameralismo perfetto, non sono però convinta (e non sono la sola) che un senato non elettivo possa essere più trasparente ma soprattutto più accountable nei confronti degli elettori. E’ possibile che aiuti a rendere più snello il processo legislativo, anche se non è il numero di leggi approvate il problema del nostro Paese.
La legge elettorale invece, pur essendo un miglioramento rispetto al porcellum ma non era difficile, lascia molto a desiderare per quanto riguarda la possibilità di migliorare la qualità del corpo parlamentare. I collegi molto grandi, le candidature multiple e l’assegnazione dei seggi su base nazionale renderanno abbastanza ininfluente i candidati locali e la campagna elettorale nel collegio. Sicuramente aumenterà l’accountability dell’esecutivo, che governerà serenamente per 5 anni grazie al premio di maggioranza e si prenderà meriti e demeriti. Ricordiamoci però che le leggi le dovrebbe fare il parlamento ed è per quello che un maggior legame con la propria constituency, rispetto alle segreterie di partito, sarebbe auspicabile.
Non vedo quindi, nelle riforme istituzionali ma neppure in quelle economiche, questa forza dirompente nel rovesciamento delle élite che detengono il potere e che frenano la crescita del paese.
Forse Simoni è incappato in una fallacia logica, di quelle ben descritte proprio su Il Post