[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1494079327265{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]Io me lo ricordo bene, il 6 maggio del 2015, quando Pippo di mattina presto è arrivato in redazione per dirmi che sarebbe uscito dal PD. E per me non è un ricordo solo politico ma, in fondo, era anche il cerchio che si chiudeva dopo tutti quegli anni che avevamo passato insieme sfregando la nostra idea (che la politica sia terribilmente importante e bella) contro le croste di un Partito Democratico usurante per chi cercava un’architettura di uguaglianza, solidarietà e giustizia sociale. Mi ricordo bene anche la matematica certezza di scontare quella scelta con la chirurgica indifferenza di chi sminuisce tutto ciò che non è vincente e vittorioso. Eravamo già un Paese ammaestrato a spargere la bava del padrone e anche oggi, due anni dopo, il servilismo è tremendamente “pop”.
Uscire dal PD allora significava prendersi la responsabilità di sapere che ciò che serve per racimolare un po’ di consenso immediato difficilmente è ciò che serve al Paese e significava prendersi la responsabilità di coltivare uno sguardo lungo anche se tutto intorno gli altri stavano piegati sul consenso fast food e sui pruriti più pelosi. Due anni fa si intravedeva già che sarebbe finita così: la riforma Boschi, il Jobs Act, le larghe intese e la svolta a destra sui temi di immigrazione e sicurezza non sono le improvvise svolte di un momento ma l’approdo naturale dell’involuzione di un centrosinistra che ha deciso di cambiare riferimenti sperando di simulare sempre gli stessi connotati.
Abbiamo passato anni al limite della potabilità provando a cambiare un processo irredimibile, ci hanno apostrofato come “troppo curiosi”, “guastafeste”, “rompipalle” e “signor no” per arrivare ad oggi. Ora si accorgono di avere perso voti, elettori e fiducia. Eppure questi due anni non sono solo i tentativi di erosione e esclusione subiti e non sono nemmeno la sterile soddisfazione di averci visto giusto. Non lo sono per niente. Sono due anni di elaborazione politica sui diversi temi in cui si è provato a costruire un pensiero senza inseguire le urgenze (spesso solo percepite o costruite ad arte) e ostinatamente non occuparsi dello storytelling ma dedicandosi ai contenuti.
Come scrive Pippo “bisogna essere liberi per diventarlo” e ci vuole coraggio e costanza. Perché non si realizzano solo gli sfaceli. Poi viene il tempo delle proposte che si scoprono al passo del futuro.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]