Il paradosso del clima. Più ci diciamo che la situazione è grave(-issima) e meno ci avviciniamo alla soluzione del problema o meglio ad azioni che la possano conseguire.
Abbiamo iniziato il 2020 con l’Australia in fiamme, che dava seguito ai roghi dell’Amazzonia del 2019 (proseguiti anche quest’anno), poi è intervenuto prepotentemente il Covid-19 ad occupare il centro del dibattito politico, e non poteva essere altrimenti, insieme alla presidenziali americane. Nel frattempo qualche spiraglio green si è aperto quando è stato discusso il Recovery Fund, del come utilizzare queste risorse e della direzione che può dare all’economia e della sua riconversione. Un dibattito scivolato troppo velocemente su chi decide come impiegare le risorse più che del merito finale del loro investimento (anche per uscire dal tunnel della ‘bonus economy’).
All’apice dei devastanti incendi che hanno colpito lo stato di Washington, l’Oregon e la California (secondo i dati Calfire sono andati in fumo 1,62 milioni di ettari di foresta, l’equivalente della superficie del Connecticut, battendo, anzi doppiando il precedente record stabilito nel 2018), l’ormai ex-presidente Trump riuscì a dire che gli incendi forestali potevano essere evitati con una maggior pulizia dei boschi e che stava combattendo i cambiamenti climatici anche se è uscito dagli accordi di Parigi. Accordi ai quali Kamala Harris ha annunciato che gli USA torneranno. Purtroppo dal 2015 ad oggi nessun paese del G20 ha rispettato gli accordi e sebbene la pandemia abbia portato a una caduta della produzione nel breve termine di carbone, petrolio e gas, rispettivamente dell’8, del 7 e del 3% rispetto al 2019 (e delle emissioni globali — 6,7%) , nei prossimi dieci anni è atteso un aumento medio annuo del 2% per ognuna delle variabili (dati Unep). Fino al mese scorso i governi del G20 hanno impegnato 233 miliardi di dollari in attività a sostegno della produzione e del consumo di combustibili fossili, contro i 146 miliardi di dollari per le energie rinnovabili, l’efficienza energetica e le alternative a basse emissioni di carbonio. La risposta alla crisi ha finito per confermare e intensificare i modelli già esistenti prima dello scoppio della pandemia. Chi già sovvenzionava l’economia fossile ha incrementato il sostegno a quest’ultima, dove invece si stava iniziando il percorso di transizione si è visto un impiego degli stimoli economici improntati ad accelerare questo cambiamento.
Fatto particolarmente grave visto che i paesi del G20 sono responsabili dell’80% delle emissioni globali di gas serra (una conferma della validità della legge di Pareto), se al 2018 le emissioni globali erano in aumento dell’1,8%, l’obiettivo rimane (e sembra destinato a rimanere tale) la riduzione del 45% entro il 2030 e arrivare alla neutralità climatica (azzeramento) nel 2050.
La forbice fra le emissioni con le politiche attuali e gli impegni presi (fonte Climate action tracker) è ancora abbastanza larga e in entrambi i casi lontana dall’obiettivo di aumento di 2 gradi entro fine secolo (l’IPCC ci dà a + 2 °C entro il 2060). Anche John Kerry, lo scorso anno, è arrivato ad affermare che la crisi climatica è grave ed assomiglia ad una guerra: il costo in termini economici è già molto alto, lo vediamo anche in Italia quando (sempre più spesso) c’è un’ondata di ‘maltempo’ (come si continua erroneamente a chiamarlo), per il 2019 la stima dei costi di soli effetti economici diretti è stata di 100 miliardi di dollari (un rapporto della Commissione Europea calcolava solo per il 2017 circa 283 miliardi di euro per danni diretti e indiretti causati dai disastri legati agli eventi meteorologici) e per il 2050, con le politiche attuali (cioè senza interventi significativi) potrebbero arrivare ad 8mila miliardi di dollari.
Il report annuale Brown to Green dà pessimi voti anche all’Italia (fin qui nessuna sorpresa).
Eventi estremi hanno funestato anche l’Italia, non ultime le alluvioni in Sardegna, Calabria ed Emilia-Romagna, si stima che entro il 2100 il danno causato ogni anno dalle alluvioni dei fiumi in Europa potrebbe aumentare da 5 a 112 miliardi di euro l’anno. Un Paese che deve prioritariamente sviluppare strategie di efficientamento degli edifici esistenti e ricreare un serbatoio verde (dal 2001 oggi abbiamo perso 300 km quadrati di boschi).
Il Dpcm dei prossimi 10 anni dovrebbe riguardare questo, riavviare l’economia investendo in energia e infrastrutture a basse emissioni, avrebbe un effetto positivo sull’occupazione, sulla salute ed ovviamente sul clima. Va colta l’opportunità di allontanare il più possibile dai combustibili fossili la nostra economia, rendendola più sostenibile, resiliente e giusta.
Il tempo scarseggia, mentre le Nazioni Unite fanno sapere che si potranno fissare nuovi obiettivi nel 2021, il rapporto dell’Organizzazione meteorologica mondiale indica che la Terra si è già riscaldata di 1,2 °C rispetto ai livelli pre-industriali e c’è una probabilità su cinque che superi entro il 2024 la soglia dei 1,5 °C. Non c’è tempo di aspettare la Cop-26 per decidere quali nuovi obiettivi fissare, in questo momento anche le ultimissime promesse, quelle del 12 dicembre, risulterebbero inadeguate al raggiungimento dell’obiettivo (far rimanere la Terra un posto simile a quello che abbiamo conosciuto, adatto alla vita). I disastri e le macerie del 2020 (pandemia inclusa) rischiano di essere solo un assaggio di quello che ci aspetta a breve. Nonostante il greewashing imperante i cambiamenti immediati e le misure concrete che servono sono ancora ostacolate, rimandate, negate.
Agiamo, continuiamo a chiedere azioni concrete, prima che qualcuno venga a dirci ”Elvis has left the building”.