Avevo poco meno di venticinque anni, ed ero attivista nel più grande partito della sinistra italiana. Aprivo la sezione ‑allora non si chiamavano circoli- e contribuivo sia all’iniziativa politica che alla “propaganda”, si diceva così, rivelando una parte della mia formazione professionale successiva. Del resto con madre in passato militante e geni ereditati da un riformista vicino a Napolitano, il mio momento-Cosa (di Nanni Moretti) lo avevo già superato. In quell’anno il Partito Democratico della Sinistra, i cui effetti al governo del Paese si stavano cominciando a vedere, aveva vinto anche le elezioni comunali ‑in coalizione nel centrosinistra che era ormai lineare chiamare Ulivo- strappando la città alla Lega. Di lì a poco, tutti i vertici della sezione si trasferirono in amministrazione, senza procedere a un ricambio naturale, nè lasciare che l’iniziativa politica autonoma del partito rispetto alla giunta si mantenesse viva. Sentivo che poteva essere il mio momento, l’assunzione di una responsabilità sulla scorta delle idee e non solo del mio status di giovane, l’unico che una gestione precedente un po’ spregiudicata non si era lasciata sfuggire.
In occasione del congresso, preparai un documento che avrei poi letto in sede, nel quale mi sarei messo a disposizione per una candidatura verso gli anni Duemila. Il titolo dell’intervento era “Una classe dirigente nuova per un partito nuovo”, e quindi è possibile capire il colpo che mi ha preso quando ‑quindici anni dopo- Fabrizio Barca stilò il suo, denominandolo “Un partito nuovo per un buon governo”. Sfrondato dagli eccessi retorici, quasi veniali per una personalità non ancora del tutto adulta e un po’ refrattaria a tattiche e strategie, quel testo parlava già di «democratici, come irreversibile processo storico e comunanza di valori condivisi»: era il tasto su cui insisteva l’allora vicepremier Veltroni, grazie alla cui Unità accrescevo la mia inclinazione a informarmi prima di scrivere. Non solo: facevo riferimento ai «lavori atipici», mettevo in guardia dal rischio di una mortificazione delle energie inespresse a vantaggio dei soliti noti, auspicavo l’uso di internet (ancora non così di massa) nei rapporti tra vertici e base, mi schieravo contro la scelta imminente del cosiddetto apparato, una grigia funzionaria per la segreteria, con toni rottamatori che il Renzi di un anno fa al confronto era uno scrupoloso establisher, e che oggi probabilmente non riscriverei nella stessa forma.
Insomma, ampi stralci di quei fogli, tenuti per anni in un floppy disk e di recente rinvenuti (spiegazzati e vissuti) anche in formato cartaceo, si presterebbero ancor oggi all’attualità politica del maggior partito della sinistra italiana. E questo dice una cosa sola: che in tre lustri e otto governi, non è cambiato niente. Non negli argomenti e nei problemi, che sono ancora tutti là ‑dalla rappresentanza sindacale dei non garantiti alla comunicazione interna ed esterna, dall’essere “parte” alla considerazione di una base più avanti nei processi politici rispetto ai vertici- e non nella classe dirigente, che si è autoconservata pur nella mutazione della scatola contenitrice. Superfluo dire, a questo punto, che, pur caldeggiati da importanti esponenti cittadini, all’epoca quel documento e i suoi effetti non vennero considerati, in nome dell’esperienza, della tenuta unitaria, e di tutte le altre locuzioni che si inventano da sempre per decidere nei caminetti o davanti a qualche sontuosa grigliata di pesce. E poco importa che in una assemblea dei circoli, molti anni più tardi a Roma, Debora Serracchiani diventò celebre per aver utilizzato all’incirca le stesse parole e gli stessi argomenti di critica al modello. Per conto mio, continuai la mia adesione a cavallo del millennio, fino al sopraggiungere di un nuovo fattore ‑attualissimo, ancora- che l’avrebbe resa impraticabile.
Al congresso del 2001, Piero Fassino ‑esemplare perfetto di traversata dal carrierismo comunista 1983 al carrismo renziano 2013- si candidava a segretario vagheggiando, obtorto il suo lungo collo, il percorso verso il Partito Democratico. Nella cellula della laguna sud avevo aiutato alcuni netturbini di una compagnia che stava per perdere l’appalto di alcune pulizie a entrare in contatto col presidente della municipalizzata (già segretario comunale del PDS) per trovare una soluzione che consentisse di salvare il posto di lavoro. Erano tutti o quasi elettori delle destre di popolo, dalla Lega ad Alleanza Nazionale. L’operazione andò a buon fine, ma non mi sarei aspettato di vederli tesserati tutti e nove dai DS, entrare straniti in quella sede che sentivo “mia” e che per loro era quella dei rossi, votare Fassino al congresso comunale, imboccare la porta d’uscita e non averne più traccia, magari per la calle c’erano le briciole delle loro tessere. Piccolo caso di truppe cammellate, di intrusione di corpi troppo estranei, di doping delle geometrie interne, come tanti ne vediamo in corso per tutta l’Italia nelle ultime settimane. Fatto sta che assegnai la mia preferenza a Giovanni Berlinguer, persi 42 a 1 e decisi di non rinnovare una tessera ormai decennale e che aveva, anche con quel fatto, perso il proprio valore.
Per tutti gli Anni Zero sono stato un nomade, anzi un orfano, di quella sinistra socialdemocratica e laburista che aveva saputo incontrare, nell’Ulivo di Romano Prodi, l’ispirazione cattolica progressista e welfare-oriented, le istanze ambientali, i nuovi diritti nei referendum, l’eredità laica e azionista, e che fosse un netto contraltare ideale, programmatico e pure “antropologico” alla destra berlusconiana e leghista. Ho votato non di rado a sinistra dei DS (Verdi, girotondi, Italia dei Valori, fino a Vendola) e non mi sono sentito immediatamente coinvolto dalla nascita del Partito Democratico, le cui ragioni compresi appieno solo più tardi. La mia vita di giornalista stava volgendo verso altri interessi e passioni, ma quando il tuo Paese versa in determinate condizioni e in casa, a scuola, nei luoghi di lavoro avevi respirato da sempre la politica, il richiamo prima o poi doveva arrivare. Fu alle primarie del 2012, nei mesi preparatori, quando Bersani ‑a cui nel 2009 non diedi credito- rinnovò la segreteria, le rappresentanze nei territori, perfino i talk show televisivi si adattarono a importare nuove figure della galassia democratica. L’essersi messo contro il mefitico patto di sindacato delle correnti (che oggi stanno mezze con Cuperlo e mezze con Renzi) attribuiva ulteriori punti al segretario emiliano, di modo tale da farmi dire che, al medesimo status quo di un anno fa, riconfermerei quella mia scelta elettorale nei suoi confronti. Ed è stato appagante, sentirsi chiedere di dare una mano alla federazione nell’uso dei social network: finalmente, una piccola vittoria tardiva se non postuma, di quel documento scritto quindici anni prima.
Il resto è cronaca. Dopo la sconfitta di febbraio la dirigenza del PD ha sbagliato tutto quello che era possibile sbagliare, e anche di più con l’apice del 101, soprattutto nel rapporto con chi le aveva affidato ancora una volta il proprio consenso. Da qualche anno seguo il blog e le iniziative politiche di un mio coetaneo di Monza, Giuseppe Civati, con cui ho condiviso il percorso a partire dai comitati per l’Italia che vogliamo, fino a ritrovarmi sempre più nelle sue posizioni e anche nel modo di esprimerle: uno che gira la nazione non solo durante le campagne elettorali, aggregando con visione lunga. Se non ci fosse stata la Rete ‑ieri osteggiata dal sindaco di Venezia al congresso provinciale, squalificandola a «pettegolezzo»- non avrei mai, probabilmente, saputo che fuori dalle consorterie, dai nasi turati, dai magoni da inghiottire nella piccola isola c’è, unendo i puntini, un altro partito possibile. Esperienze che convergono e che motivano nel tornare a darsi da fare, con la lucida sapienza di Walter Tocci e l’energia contagiosa di Elly Schlein («Quante di quelle anime vogliamo perdere ancora?»), la schiena dritta di Felice Casson con cui le vicende narrate all’inizio dividono natali e dialetto, e la maestria inoppugnabile di Corradino Mineo: una rete, minuscolo, che è già classe dirigente diffusa e spontanea, pares il cui primus non è uomo solo al comando, per una missione i cui nervi scoperti sono ancora intatti da quel documento del 1998, e da quel tesseramento di tre anni più tardi. A proposito, in #untranquilloweekenddapd solo una prospettiva così affascinante poteva convincermi a sottoscrivere di nuovo l’adesione, dopo tutto questo tempo, a una forza che ancor oggi sta governando assieme a Silvio Berlusconi: l’unica prospettiva che apertamente chiede la fine delle larghe intese. E la sola che per la prima volta non è la meno peggio, ma ad oggi la migliore nello sterzare in direzione opportuna, unificando sinistra e rinnovamento là dove i concorrenti mancano dell’una, o dell’altro. Insomma, ero partito democratico (della sinistra), sono tornato. E la sinistra, qualcuno chiederà? La ritroviamo e la portiamo nell’unico luogo dove può essere spesa, assieme a Giuseppe Civati.