Dalle consuete colonne del New York Times, nel giorno in cui si insedia il nuovo governo greco, Krugman ci consiglia di tenere d’occhio i flussi, e non gli stock. Nonostante i boati che vengono dalla Germania, il saldo di bilancio della Grecia vanta un 4,5% di surplus primario in termini di PIL dal 2013. Dato che ormai anche il FMI si è convinto che il moltiplicatore è positivo e maggiore di uno (1,3 per la Grecia), e che il gettito fiscale greco copre circa il 40% del PIL, una riduzione di quel surplus che si convertisse in spesa diretta a sostegno dell’economia reale si autofinanzierebbe per metà. Siccome, poi, in assenza di riduzione del surplus, il PIL continuerebbe a diminuire e il gettito fiscale anche, c’è da considerare anche il recupero delle mancate entrate. E, naturalmente, nessuno parla, a parte Tsipras ovviamente, degli effetti sull’occupazione e sul benessere del popolo greco.
E il debito, lo stock del debito, è lì, e sembra che finalmente possiamo ricordare che il suo significato, per chi ne detiene i titoli, è quello di detenere un’attività da cui si aspetta indietro interessi certi. Una ricontrattazione del debito, non solo per la Grecia, ma per l’intera area euro, in un momento in cui gli interessi sono prossimi allo zero (o addirittura negativi) e i valori dei titoli pericolosamente “gonfiati” avrebbe prima di tutto l’effetto di rimettere ordine e, in vista di nuove iniezioni di liquidità previste dal QE di Draghi, indirizzerebbe le operazioni finanziarie delle banche, prima di tutto. Magari anticipando qualche tentazione speculativa che sembra tornare a serpeggiare. Il debito della Grecia, ricordarlo è sempre utile, rappresenta il 4% del debito pubblico dell’intera area euro: già, perché è in termini di area euro che dovremmo ragionare, se abbiamo capito che è l’Europa la forza di tutti noi. O davvero ha poco senso recriminare nei confronti della Germania.
Ci sarebbe piaciuto che i termini del problema, così come oggi li pone bene in chiaro Tsipras, fossero al centro dell’azione politica della Presidenza italiana nel corso del semestre europeo appena concluso; ma, invece, non siamo andati oltre una richiesta di più flessibilità, allineandoci sostanzialmente, anche nel vocabolario, alla posizione tedesca. Lo stesso auspicio lo aveva manifestato Romano Prodi, che da anni addita nella politica dell’austerità un pericolo non solo per lo sviluppo, ma anche per la tenuta dell’Europa. In un’intervista dello scorso anno all’Espresso (29 maggio) evidenziava che anche in Germania crescono i movimenti populisti e nazionalisti, in risposta a un benessere che, sebbene ancora relativamente alto, va diminuendo. Le “grandi coalizioni” che si diffondono nella politica europea sono un tentativo di fare argine; ma la vera risposta è un cambiamento radicale nella politica economica. Ancora Prodi fu il primo a parlare di “eurobonds”, la cui realizzazione è stata vanamente tentata da Draghi, e che sarebbero stati uno strumento diretto e tempestivo di rimettere risorse a disposizione dell’economia reale. Perché questo è, in estrema sintesi, il nodo della questione: ribaltare il punto di vista, adottato dalla Germania, per cui il primario interesse va riservato agli equilibri finanziari, da cui discenderebbe ogni bene per l’economia reale. Ormai, come ci ricordano Prodi e Krugman e pefino il FMI, dovrebbe essere chiaro che non è così.