Possiamo scherzarci su quanto vogliamo, fino ad arrivare alla cialtronesca trovata di mostrare la futura scheda elettorale del Senato, ma ci sono alcuni punti fermi della riforma che andremo a votare sui quali i proponenti si sono espressi chiaramente sin dalla sua prima versione. Rientrava, infatti, tra i famosi “quattro paletti” — assolutamente insindacabili — posti dal governo Renzi la non elettività dei Senatori: «no elezione diretta dei Senatori», diceva testualmente Matteo Renzi, quando tutta questa accidentata avventura costituzionale cominciò.
«Che il senato non debba essere più elettivo [primo paletto], che chi ne fa parte non percepisca uno stipendio [secondo] e non possa [possa!] votare la fiducia al governo [terzo] né le leggi di bilancio [quarto] lo vogliono i cittadini che hanno votato alle primarie e lo ha deciso la direzione del Partito» (Il Messaggero), ribadiva Matteo Renzi, con ancor maggior chiarezza, nei giorni successivi.
Il ragionamento governativo che stava alla base di questa scelta, e che legava i quattro paletti, è stato più e più volte esplicitato, anche dalla Ministra delle Riforme, Maria Elena Boschi: «non stanno insieme un Senato eletto e un Senato che non vota né la fiducia, né il bilancio dello Stato» (Repubblica).
Capite? No elettività, no fiducia e no bilancio sono tre elementi — stando a quanto raccontava il governo — che sono assolutamente legati tra loro, per cui se manca uno, anche gli altri devono essere messi in discussione. Ma non è abbastanza: Boschi ci dice infatti che un Senato eletto deve, in quanto tale, votare la fiducia.
Delle due, l’una: o il Senato proposto dalla riforma è eletto dai cittadini, e allora deve votare la fiducia (e allora dobbiamo rimettere mano a tutta la riforma), o non è eletto dai cittadini, e allora può rimanere slegato dal rapporto fiduciario, così come prevede la riforma. Questa — ribadiamo — non è la nostra convinzione, ma la convinzione di chi questa riforma pasticciata l’ha proposta e la sostiene.
Per sgombrare il campo dai dubbi, andiamo al testo della riforma, il quale dice: «I Consigli regionali […] eleggono, con metodo proporzionale, i senatori fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori». E prosegue, aggiungendo un inciso a caso nel comma successivo, dicendo che la scelta è compiuta «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri».
Facciamo l’analisi logica.
Qual è il soggetto? «I Consigli regionali».
Qual è il predicato? «Eleggono».
Qual è il complemento oggetto? «I senatori».
Qual è il complemento di modo? «Con metodo proporzionale, fra i propri componenti e — messo a caso nel comma successivo — in conformità alle scelte espresse dagli elettori».
I Consigli regionali non possono limitarsi a una semplice ratifica: i consigli regionali detengono il potere elettivo, che esercitano rispettando alcune indicazioni di principio. E non potrebbe essere in altro modo, dato che la riforma è stata impostata così sin dall’inizio, sulla base dell’assunto che la non elettività del Senato e la mancanza del rapporto fiduciario dovessero stare assieme.
Che ora il Presidente del Consiglio si lanci in improbabili trovate propagandistiche dimostra come questa scelta fosse sbagliata e come il compromesso ricercato abbia creato più disastri che altro, lasciandoci un Senato eletto dai Consiglieri regionali.
Un pasticcio del genere in Costituzione possiamo risparmiarcelo, votando No e mantenendo la Costituzione così com’è: «I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto». Semplice, chiaro, costituzionale.
Tra parentesi quadre le note dell’autore.