[vc_row][vc_column][vc_column_text]Si è aperta ieri, 2 dicembre 2019, la XV conferenza sul clima dell’ONU, a Madrid. Al termine di queste due settimane avremo un esito storico: o avremo davvero colto il momento di agire concretamente per contrastare l’emergenza climatica, oppure il fallimento sarà epico. A un anno dal sostanziale buco nell’acqua della COP24 di Katovice, gli USA hanno formalizzato la loro revoca agli accordi di Parigi e le emissioni di CO2 sono aumentate dell’1,5%, come ogni anno nell’ultimo decennio.
Come ha ricordato il Segretario Generale ONU Guterres, adesso è il momento di varare decisi piani nazionali definiti, gli NDC (Nationally Determined Contributions). Negli anni abbiamo visto susseguirsi impegni vaghi e promesse senza fondamento, che puntualmente non hanno prodotto alcun risultato sull’andamento delle emissioni. E non poteva essere altrimenti: il nostro intero sistema produttivo è disegnato per continuare a bruciare fonti fossili di carbonio ed immetterlo in forma gassosa, come anidride, in atmosfera.
Contemporaneamente, i sistemi naturali che “per mestiere” riassorbono carbonio gassoso, gli ecosistemi integri, vengono quotidianamente degradati per fare spazio a suoli a uso agricolo o persi per desertificazioni, inondazioni, compromissioni per mano umana.
Così scarsamente connessi alla nostra condizione biologica di specie quali siamo, nessuno poteva immaginare gli esiti di uno studio del Fondo Monetario Internazionale: le balene – sì, le balene — possono comportarsi da carbon sink molto più efficaci di qualsiasi tecnologia attualmente scoperta. Si comporterebbero come quattro foreste amazzoniche, assorbendo 37 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Tutto starebbe nel loro ciclo vitale ed ecologico, ovvero nell’interazione fra balene e fitoplancton: minuscole alghe azzurre disperse in mari ed oceani, che fanno fotosintesi e riassorbono CO2 dall’atmosfera, nutrite dai minerali riportati in superficie dalle funzioni biologiche delle balene. Contrariamente a quanto si pensa, è il fitoplancton a fare la gran parte del lavoro di riassorbimento di CO2. E il fitoplancton prospera dove prosperano le balene.
Ovviamente non è tutto così semplice: aumento delle temperature e acidificazione degli oceani contribuiscono al declino di questi minuscoli organismi. No, non è una puntata di Geo&Geo, è la politica ai tempi dell’emergenza climatica: o cambiamo i nostri schemi di ragionamento antropocentrici e novecenteschi, o difficilmente potremo spingere sulle soluzioni giuste per salvarci dal peggio. Si parla di servizi ecosistemici ben quantificabili e traducibili in valore economico: secondo lo studio del Fondo Monetario Internazionale che ha emesso questi dati, una grande balena “vale” in media 1 milione di dollari, mentre l’intera popolazione mondiale si aggira intorno al trilione. Cifre inimmaginabili.
Se la dinamica in natura corrisponda a queste stime è tutto da verificare. Nel dubbio e nell’attesa di azioni efficaci e stringenti da parte dei governi, però, forse vale davvero la pena portare a casa da Madrid almeno un bel programma di tutela e protezione delle popolazioni di cetacei. Come dire: una benedizione non fa mai male.
Scopriremo durante la COP25 se sarà una scelta politica quella di proteggere ed incrementare le popolazioni di cetacei ad ogni costo, proprio perché di costi si parla: costi di sofferenza di esseri umani, ora bambini, ma domani adulti che dovranno migrare in cerca di risorse e abitabilità.
Con Possibile continueremo a chiedere ai governi che si abbracci pienamente il concetto di transizione ecologica a tutti i livelli, collegando le politiche locali a quelle industriali, poiché un anno è passato da Katovice e dall’inizio delle mobilitazioni per il clima e finora nulla di concreto è cambiato.
Altrimenti — forse — nemmeno le balene ci salveranno.
Consigliatissimo, il report delle Nazioni Unite che tratta l’argomento.
Chiara Bertogalli
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