C’è stata la generazione X, quella Y detta anche dei Millennials, ovvero i nati fra gli anni ’80 e ’90, i baby boomers nati nei ’50, e ora una nuova generazione si affaccia, come appunto capita di tanto in tanto, sul palcoscenico del mondo con l’intenzione di cambiarlo e di diventarne protagonista. La chiameremo Generazione G: G come green, ovviamente come Greta, come global, una marea umana e under che sciama a milioni ovunque nelle piazze e sui social, che non è ancora stata riconosciuta per quello che è — una nuova leva con un suo peculiare benché certamente vario punto di vista — e quindi non è ancora stata battezzata.
Ci proveremo noi, indagandola, a partire da sabato 30 novembre al centro Concetto Marchesi di via Spallanzani a Milano. Una giornata di formazione, la prima di una serie come già annunciato a luglio nel corso dell’ultimo Politicamp, in cui però sono gli studenti a far lezione e gli adulti ad ascoltare, perché non c’è niente di peggio dei vecchi che pretendono di spiegare i giovani.
Senza fastidiosi giovanilismi, ma con il consueto approccio aperto e rigoroso che da sempre caratterizza Possibile: per capire, e, si spera, fare emergere idee e soluzioni.
Chi sono, cosa vogliono i ragazzi della Generazione G? Sono tante cose diverse, al di là delle semplificazioni, e ne vogliono altrettante: si battono contro l’emergenza climatica, ovviamente, che poi è la molla che li ha spinti più di ogni altra motivazione a unirsi e e dar notizia di se, e rendersi noti a un mondo che forse avrebbe continuato a darli per scontati nella convinzione di poterli tenere buoni con l’illusione di una società dei consumi senza conseguenze e senza limiti. Questi sono invece ragazzi che hanno capito che qualcosa in quella promessa non funziona, e probabilmente non si realizzerà. Ne stanno comprendendo il costo, letteralmente planetario, le disuguaglianze che implica e che colpiranno quasi tutti, tranne pochissimi privilegiati. C’è quindi la gig economy, il lavoro dematerializzato soprattutto nei diritti, una dimensione che è globale e che porta a spostarsi, per opportunità ma soprattutto per bisogno.
Avremo quindi testimonianze da chi nelle piazze c’è stato e ha contribuito a organizzarle, da chi emigra per cercare una vita migliore, da chi si batte perché i cosiddetti lavoretti siano riconosciuti per quello che sono, ovvero lavori veri e propri. Da chi fa politica anche senza bisogno di ritrovarsi nelle sue forme tradizionali, da chi fa cultura e con la cultura ebbene sì, vorrebbe mangiarci, da chi studia perché gli è stato detto che lo studio era la chiave per realizzarsi e poi ha scoperto che studiare costa e che il mondo del lavoro là fuori non era così pronto a riconoscere non tanto il valore legale, quanto quello morale di quello studio.
Faremo tutto questo per un senso di necessità, la necessità di alzare lo sguardo verso un orizzonte un po’ più ampio e meno misero di quello a cui vorrebbe costringerci la politica descritta ogni giorno sui giornali. Insomma, qui c’è da cambiare il mondo e si dibatte di limite del contante: e non si riesce a fare nemmeno quello, peraltro.
Negli ultimi due decenni la politica e la convegnistica italiane hanno lungamente sfruttato la suggestione di un’Italia 2020, l’idea cioè di mettersi al lavoro per immaginare il paese del futuro. Beh, il 2020 inizia fra due mesi e la notizia è che quasi tutto è rimasto più o meno come prima, in compenso molte cose sono peggiorate. La soluzione non è, domani, iniziare a chiamare le liste elettorali Italia 2030, quanto piuttosto iniziare a occuparsi delle cose serie, seriamente. Noi ci proviamo, a partire dal 30 novembre.