Ci sono degli argomenti di cui è meglio che i cittadini non si occupino. Sono gli stessi argomenti la cui crudezza è stata disinnescata dal lessico pubblico, per cui le guerre sono diventate missioni di pace, per cui le bombe sono diventate generico “materiale da armamento”, per cui i bombardamenti con i quali da mesi (per la precisione, dal marzo del 2015) l’Arabia Saudita fa stragi di civili in Yemen sono “missioni contro il terrorismo internazionale” (che è come dire: ammazziamoli tutti, là in mezzo ci saranno anche dei terroristi, no?).
E’ dietro a queste parole che si nasconde l’invio di bombe dal nostro paese, destinate all’Arabia Saudita e — come più volte documentato dalla stampa — utilizzate esattamente in Yemen, dove una guerra di cui nessuno si occupa sta causando migliaia di morti, ammazzati anche da quelle bombe. E’ una vicenda sulla quale chiediamo chiarezza da tempo. Abbiamo chiesto chiarezza all’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e abbiamo chiesto chiarezza agli allora ministri della difesa, Roberta Pinotti, e degli esteri, Paolo Gentiloni.
Le ragioni della nostra insistenza, segnate con l’hashtag #PinottiRisponda dato il particolare attivismo della ministra nell’intessere relazioni con il governo di Riad, hanno ragioni che si fondano, oltre che su ragioni di carattere etico, su ragioni di carattere legale. Nel nostro paese, infatti, esiste una legge, la legge 185/1990, che dice cose chiarissime sull’esportazione e il transito di armi, e cioè che è vietato verso i Paesi in stato di conflitto armato. L’esportazione e il transito di armi deve necessariamente avvenire sotto il controllo del Ministero degli Esteri, il quale è il principale organo deputato ad autorizzare o meno. Il tutto deve essere fatto, specifica la legge, «secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Nonostante la legge, sono innumerevoli i carichi di armamenti partiti dalla Sardegna e diretti verso l’Arabia Saudita, come sono innumerevoli le cose che non tornano rispetto alla tracciabilità delle armi spedite, tanto che le procure di Brescia e di Cagliari hanno aperto delle inchieste.
Di fronte a tutto ciò, le risposte (che non rispondono) giunte da Paolo Gentiloni e da Roberta Pinotti si sono dimostrate del tutto insufficienti, se non addirittura approssimative. Gentiloni, di fatto, ha ammesso l’avvenuto traffico di armi tra Italia e Arabia Saudita tra il 2011 e il 2015, sostenendo che tutto ciò sia legale. Il primo problema è che già nel 2015 l’Arabia Saudita bombardava lo Yemen (ai tempi le operazioni venivano definite «limitate e difensive», dal ministero). Il secondo problema è che i dati raccontano che il traffico è avvenuto sia nel 2015 che nel 2016 (un nuovo carico pare sia partito proprio nelle scorse ore), e su ciò non abbiamo risposte.
La seconda linea difensiva tenuta dai rappresentanti dei due dicasteri è la seguente: sull’Arabia Saudita non esiste alcun embargo internazionale, quindi perché non dovremmo autorizzare l’export di armi? La risposta è semplice e duplice. In primo luogo perché è la stessa legge italiana a vietarlo, come abbiamo spiegato. In secondo luogo il Parlamento europeo ha già chiesto di applicare un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita, ma – chissà come mai – i nostri governanti se ne dimenticano sempre.
Esiste, infine, un’altra delicata questione che ha a che fare con l’export di armi dal nostro paese: si tratta della morte di Giulio Regeni. Altre esportazioni di armi documentate a più riprese sono quelle sulla rotta tra Italia e Egitto, infatti. Come si concilia l’esportazione di armi dal nostro paese all’Egitto con la richiesta di verità sulla morte di Giulio Regeni?
Sono questioni sulle quali non smetteremo mai di insistere, perché ne va della vita delle persone, ne va della qualità della nostra democrazia (che a furia di esportarla ne sia rimasta poca da noi?), ne va della responsabilità delle nostre istituzioni. Queste sono le domande che rinnoviamo, e sulle quali pretendiamo chiarezza, prima che venga chiesta fiducia.