Anche quest’anno, in occasione della “Giornata Internazionale sulla Disabilità”, tiriamo le somme di quanto è stato fatto, o meno, per migliorare le condizioni di vita di chi ha una disabilità.
Parliamo della nostra Italia, paese in cui chi vive la disabilità spesso si deve scontrare contro mentalità ancora retrograde; c’è ancora poca conoscenza delle problematiche quotidiane e questo provoca rallentamenti “burocratici”, indecisioni istituzionali e non solo!
Talvolta, davanti a un problema, si compatisce senza realmente comprendere. Per esempio, quante volte in presenza di barriere architettoniche mi è successo che le persone intorno mi proponessero di aiutarmi portandomi in braccio, ignorando che per una persona disabile, il primo traguardo dell’inclusione, sia insito nel non dover dipendere da nessuno.
Il 2016 è stato l’anno in cui è passata una legge “a metà”, quella sul #dopodinoi, e abbiamo già parlato dei limiti di questa legge, che poteva sicuramente essere migliorata. La legge di stabilità, come ogni anno, prevede che una parte di fondi vengano destinati alla disabilità (dati al 2015)
In relazione all’impegno profuso nello stanziare fondi ad hoc, una normativa unica, che tuteli le persone disabili in progetti di #VitaIndipendente, manca ancora: la gestione lasciata alle Regioni e ai Comuni dà luogo al verificarsi di situazioni e attenzioni differenti fra le zone dell’Italia. In alcune città è completamente assente una vera progettualità a favore delle persone disabili. E tutto ciò nonostante la Costituzione assegni allo Stato potestà legislativa esclusiva per quanto riguarda la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».
Si aggiunga che, nonostante le promesse fatte dal capo dello Stato nel 2014, il nomenclatore tariffario degli ausili è ancora fermo al 1999 ed è rimasto molto disallineato (per usare un eufemismo) rispetto alle tecnologie e ai costi del 2016. Le differenze tra “costi e contributi” costringono le persone a investire ingenti somme nella spesa di ausili indispensabili alla propria autonomia senza, appunto, avere un equo rimborso dalla ASL di competenza.
Per questa ragione Marco Gentili, co-presidente dell’“Associazione Luca Coscioni”, dopo aver sollecitato inutilmente più volte la ministra Lorenzin ha lanciato una petizione online che potete sottoscrivere qui.
Ad ogni modo, la battaglia della quotidianità è la più difficile, sia per le persone invalide che per i loro famigliari o cari.
La strada per il raggiungimento di uno status di indipendenza è molto lunga: le città italiane, nella maggior parte dei casi, hanno problemi di accessibilità a discapito delle persone con disabilità; tali cittadini sono spesso costretti ad impiegare molti soldi per pagare l’assistenza per spostarsi, per poter lavorare alla pari degli altri, per vivere presso il proprio domicilio, insomma, per condurre una vita normale!
La maggior parte delle persone disabili, per evitare di impiegare troppe risorse economiche, si appoggia interamente alla famiglia destinando così il lavoro full-time di caregiver ad un componente della stessa famiglia. Per questo motivo, un’altra delle battaglie di civiltà portate avanti dal “Coordinamento Nazionale Famiglie Disabili Gravi e Gravissimi” è quella del riconoscimento e tutela dei caregiver famigliari; tale legge è ferma per essere discussa nella legge di stabilità 2017 ma manca di un riferimento alla “Convenzione ONU sui Diritti delle persone con Disabilità”.
Ci auguriamo che nell’anno a venire qualcosa si smuovi: la tutela dei diritti umani è una battaglia di civiltà che dovrebbe interessare tutti anche perché le persone con invalidità sono in aumento.
Uno degli aspetti da non tralasciare è l’utilizzo dei termini corretti da parte dei mass media e dei giornali: avere un handicap è spesso rappresentato come un limite da commiserare e non come un modo di vivere, da comprendere e accettare (“le cose che non si conoscono fanno paura”).
Parlare di disabilità non deve essere un tabù e solo una vera rivoluzione culturale permetterebbe di farlo in maniera costruttiva e più normale possibile. Spogliarsi di ogni forma di conformismo è l’unico mezzo per le persone per abituarsi alla visione e all’accettazione della diversità, che poi magari è meno diversa di quanto sembri.