Mentre il paese è paludato a discutere di POS e pagamenti in contanti, di reddito di cittadinanza e lavori mal pagati, di pensioni che per alcuni mai arriveranno e delle lacrime (di coccodrillo?) della presidente del Consiglio, la questione delle questioni resta sospesa come un macigno sul nostro paese. E viene da domandarsi che cosa stia facendo il governo Meloni per affrontare la crisi climatica.
Si sarebbe tentati dal rispondere: nulla. Tuttavia, come al solito, la questione è più complicata. Poiché, a ben vedere, Giorgia Meloni si è prodotta in dichiarazioni emblematiche in occasione della COP27, tenutati a Sharm el-Sheikh nel mese di novembre 2022. Meloni ha detto che “l’Italia rimane fortemente impegnata a perseguire il proprio percorso di decarbonizzazione, nel pieno rispetto degli obiettivi dell’Accordo di Parigi”.
Ha anche detto che bisognerebbe unire la sostenibilità ambientale a quella sociale ed economica. Brava, ma è un discorso vecchio. Come sono vecchi anche i risultati sbandierati a dimostrazione dell’impegno del nostro paese: le nuove installazioni di FER in ottica di raggiungimento degli obiettivi di REPowerEU, la partecipazione al Just Transition Fund, a Youth4Climate. Ha detto, testuale: “Nel 2020, il 56% dei nostri finanziamenti complessivi per il clima è stato destinato alle misure di adattamento, mentre il restante 44% è stato destinato alla mitigazione”. Situazioni che si sono concretizzate quando lei era all’opposizione e certamente non un alfiere del contrasto alla crisi climatica.
Al di là delle mere dichiarazioni, non possiamo non notare che quel concetto, la decarbonizzazione, sia stato recentemente espunto da una norma contenuta nel Decreto Aiuti quater, primo “capolavoro” di chiara matrice governo Meloni. Con l’articolo n. 6 del D. Lgs. 176/2022, il governo ha deciso di ripulire da termini scomodi una norma che impone al Ministero della Difesa di individuare aree del demanio militare per il loro affidamento in progetti di installazione di impianti FER (ossia fonti di energia rinnovabile), “allo scopo di contribuire alla crescita sostenibile del Paese, alla decarbonizzazione del sistema energetico e per il perseguimento della resilienza energetica nazionale”, almeno così recitava l’originale art. 20 del D. Lgs. 17/2022 (opera del governo Draghi).
Ebbene, la parola decarbonizzazione è stata sostituita dalla più generica “ottimizzazione”, e resilienza (che certamente è termine abusato) da “sicurezza”. Quest’ultima è comparsa anche nella intitolazione del fu Ministero della Transizione ecologica, ritornato a essere un normale Ministero dell’Ambiente ma additivato della “sicurezza energetica” (da cui l’acronimo MASE), come impongono le questioni di attualità.
Se non altro, il ministro del MASE, tale Picchetto Fratin, oltre a distinguersi per il fluente inglese (sigh), ha suo malgrado dovuto pubblicare l’attesissimo decreto incentivi delle Comunità energetiche, strumento di attuazione lasciato in sospeso dal predecessore, Cingolani. L’approvazione del testo definitivo è attesa a giorni, essendo ormai terminato il periodo di consultazione pubblica e si spera non vi siano ulteriori “intoppi”. Il nuovo decreto incentivi dovrebbe togliere ogni ostacolo alla diffusione delle comunità energetiche, regolando finalmente gli allacci in cabina primaria, soluzione che garantirà la costituzione di comunità estese e non solo più di prossimità.
Diversamente dal solito, gli eventi catastrofici non hanno in alcun modo generato una stretta normativa in materia di dissesto idrogeologico. La frana di Ischia ha causato solo morte e dolore. Nel tempo di solidificazione del fango non vi è stata alcuna reazione. Accadrà di nuovo, accadrà sempre più spesso, e al Sud con più violenza. Qualcuno si è posto il problema? Il ministro Musumeci non ha potuto esimersi dal notare come non sia ancora stato approvato il Piano Nazionale di Adattamento al Cambiamento Climatico (PNACC). Il testo è in “discussione” dal 2018. Si tratta di una analisi del rischio, né più né meno. Da qui alla pianificazione delle azioni ce ne passa. Quanti sono i denari destinati al dissesto idrogeologico? Nel PNRR sono previsti 2,5 miliardi in investimenti diretti per opere di risanamento e di prevenzione del dissesto idrogeologico: gli appalti saranno da assegnare (tutti) entro dicembre 2023 e i lavori dovranno essere ultimati (tutti) entro dicembre 2026. Vi attendiamo al varco, cari ministri.
Nel frattempo, il governo fa sapere di avere raggiunto 40 obiettivi del PNRR in scadenza a dicembre 2022, dei 55 previsti. Una non notizia. Quella vera è che ne sono stati falliti 15. Tra i 55 obiettivi, ve ne erano alcuni correlati alla Missione 2, Rivoluzione verde e transizione ecologica. Citiamo il piano per la piantumazione di 1 milione e 650 mila piante in zone urbane ed extraurbane, da eseguire entro dicembre 2022. Con il precedente governo si era giunti sino alla fase di approvazione dei singoli progetti, ben 135, per un totale di 2 milioni di piante da allocare in circa 2000 ettari di terreno. Posto che tali piantumazioni sono una minima parte di quel che servirebbe, sarebbe opportuno che il ministro relazioni quanto prima sullo stato di avanzamento delle attività di realizzazione degli impianti arborei. Inoltre, dovrebbero essere avviati piani per la conservazione di questi nuovi impianti nel tempo, altrimenti lo sforzo potrebbe essere vanificato da errate gestioni o manutenzioni, pregiudicando la capacità di sequestro di CO2 che era stata preventivata in origine.
Per tutto il resto, siamo in attesa di una rendicontazione del PNRR finalmente trasparente e verificabile nei fatti. Perché, al momento in cui scriviamo, la effettiva “messa a terra” di questi denari – e la loro efficacia nei termini della effettiva decarbonizzazione — è ancora tutta da dimostrare.