«Abbiamo esaminato i quattro hotspot operativi in Italia: Lampedusa, Pozzallo, Trapani e Taranto. Funzionano bene […] Ci sarà l’apertura da luglio di altri due hotspot a Mineo e Messina e creeremo quattro punti mobili di crisi, che potranno essere spostati da un punto all’altro per migliorare l’efficienza delle attività di gestione. Queste strutture mobili saranno ad Augusta, Palermo, Reggio Calabria e Crotone. […] I punti mobili diventeranno poi veri e propri hotspot perché comunque serve un aumento della capacità.»
Giovedì scorso, in Commissione LIBE (Libertà civili, giustizia e affari interni), il vicedirettore generale per l’immigrazione e l’asilo della DG HOME della Commissione Europea, Olivier Onidi, è venuto a relazionarci sulla situazione degli hotspot presenti in Italia.
Il quadro offerto mi è parso ben lontano dalla realtà, ed ho ritenuto necessario rispondere con quanto ho potuto constatare direttamente a Lampedusa e Taranto, con quanto ha potuto constatare Andrea Maestri a Pozzallo, con quanto ci hanno raccontato i volontari e gli attivisti, impegnati ogni giorno nel rendere migliori le condizioni di vita delle persone che si trovano in queste strutture, sopperendo anche alle mancanze dello Stato.
Ecco il video del mio intervento:
«Negli hotspot le condizioni sono generalmente positive», ha dichiarato il vicedirettore.
Sia sufficiente ricordare che l’hotspot al centro del sistema è a Lampedusa. L’isola — lo diciamo da tanto e lo dice anche la sindaca Giusi Nicolini- non è adeguata a diventare luogo di detenzione prolungata delle persone. L’isola ha una lunga storia di generosità nel garantire primissima accoglienza e soccorso, ma è indispensabile che entro 48 ore le persone vengano accompagnate in strutture più adeguate sulla terraferma. Oltretutto, durante la mia visita, non ho potuto incontrare il personale dell’EASO (Ufficio Europeo per il sostegno all’asilo) e di Frontex (Agenzia per la gestione delle frontiere dell’UE), che pur dovrebbero essere presenti. Sarà stata una coincidenza sfortunata, ma non li ho incrociati né a Lampedusa né a Taranto al momento delle mie visite.
«Rispetto al trattamento riservato ai migranti, vediamo che il tutto viene preso molto sul serio da parte delle autorità italiane», continua.
All’hotspot di Taranto le autorità ci hanno mostrato le strutture e le procedure, illustrandoci anche l’informativa in diverse lingue e la modulistica. Eppure alcune delle persone arrivate, che abbiamo incontrato fuori dall’hostspot, ci hanno detto di non avere ricevuto alcun modulo. È necessario avere certezze su come le informative vengono effettivamente svolte e da chi.
Inoltre, non è chiaro quante volte la struttura di Taranto abbia ospitato minori, e ci sono ONG e associazioni che denunciano il fatto che ai cittadini di determinati Paesi venga consegnato direttamente il cosiddetto “foglio di via”, che impone di lasciare il territorio entro sette giorni, senza che siano stati adeguatamente informati dei loro diritti: su tutti, quello di richiedere la protezione internazionale.
Ci sono state fornite cifre differenti rispetto alla presenza di funzionari di EASO e di Frontex, che hanno i loro uffici nella struttura, e non è chiaro quali siano i loro compiti: mentre EASO si occupa dell’informativa sui ricollocamenti, Frontex stiamo ancora cercando di capire che cosa faccia negli hotspot italiani.
Una delle maggiori criticità sono i tempi di permanenza: le persone non dovrebbero stare in queste strutture più di 48–72 ore, mentre alcune ci raccontano di essere lì anche da una settimana, senza sapere che cosa li aspetti.
«Il 12% dei migranti che arrivano con la rotta del Mediterraneo centrale sono minori non accompagnati», aggiunge Onidi.
All’hotspot di Pozzallo abbiamo riscontrato una grave situazione riguardo la presenza di minori, che già dovrebbero essere ospitati in strutture specifiche, e inoltre si trovano in condizioni d’accoglienza del tutto insufficienti: con ciabatte infradito o a piedi nudi, senza i vestiti che servirebbero, con poco cibo.
Dei 160.000 ricollocamenti promessi dai governi europei nel settembre 2015, ne sono stati effettuati solo pochi più di 2000. È indecente, ed è segno dell’egoismo che serpeggia tra governi, e dell’incapacità di fare squadra. I ricollocamenti devono partire per davvero. Finché queste persone non avranno una prospettiva chiara sul loro futuro, è normale che siano diffidenti nei confronti del sistema hotspot.
Si tratta di vite sospese. E non possiamo accettare situazioni simili, tanto più se su suolo europeo. Continuiamo a vigilare, insieme alle tante associazioni e ai presidi, per denunciare le carenze e le storture ed assicurare un’accoglienza dignitosa a tutte e tutti.