È davvero divertente fare politica in Italia nel 2014. Può capitare ad esempio di discutere di una riforma, il cosiddetto “jobs act”, approvata in senato con voto di fiducia, che però continua a cambiare, riservando sorprese e novità.
L’ultima della serie è emersa da un’intervista del responsabile economico del PD Filippo Taddei, nella quale si conferma che, esteso il reintegro a casi specifici (tutti da individuare ovviamente e con un esempio piuttosto infelice) di licenziamento disciplinare, fra le scelte in campo c’è anche quella della cosiddetta “opzione aziendale”, cioè, come da precisa domanda, la possibilità che, “in caso di reintegro, l’azienda possa dire di no pagando un indennizzo più alto”.
Ora, anche al lettore più disinformato appare evidente che una simile “opzione”, se ancora ce ne fosse bisogno visto lo svuotamento sostanziale della tutela reale con la possibilità di licenziamento illegittimo libero se adottato con motivazione economica, mette definitivamente la parola fine su qualsiasi possibilità di reintegro, si ricorda, sempre in caso di licenziamento illegittimo.
Ma per capire meglio la portata, soprattutto sociale e politica, della novità bisogna fare un veloce ripasso della materia.
Prima dei correttivi apportati dalla cosiddetta riforma Fornero, a grandi linee la disciplina dei licenziamenti, nel combinato disposto della legge n. 604/66 e n. 300/70 (Statuto dei Lavoratori), e successive modificazioni, funzionava più o meno così. Il Legislatore aveva diviso le imprese in piccole, e medio grandi, con il discrimine dei 15 dipendenti nelle singole unità produttive e dei 60 nel complesso.
Tuttavia, nonostante si parli sempre di libertà di licenziamento da parte delle piccole imprese, in realtà l’art. 8 della L. 604/66 disponeva che l’imprenditore, accertata da un giudice l’illegittimità del licenziamento, dovesse procedere alla riassunzione del dipendente oppure potesse in alternativa pagare un’indennità economica. La scelta, quindi l’opzione, spettava in quel caso al datore di lavoro.
Invece, per le imprese medio grandi, l’art. 18 dello Statuto prevedeva, sempre in caso di accertata illegittimità del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno, con un minimo di 5 mensilità. Tuttavia il lavoratore poteva optare per la risoluzione del rapporto, ricevendo una ulteriore indennità di 15 mensilità.
In questo contesto è arrivata la riforma Fornero, che ha ridotto al minimo le possibilità di reintegrazione, e ha attenuato, sempre in caso di reintegro, il risarcimento del danno, ad eccezione del licenziamento discriminatorio (cioè, per capirci, quello indimostrabile) per il quale è rimasta in vigore la medesima normativa sopra citata.
Quindi, riassumendo, per tirare le fila, lo schema delle tutele (?) future potrebbe essere questo:
- licenziamento economico illegittimo: libero, con pagamento di indennità,
- licenziamento disciplinare illegittimo: reintegro solo in casi specifici da individuare, ma possibilità per il datore di evitare il reintegro pagando un indennizzo maggiore,
- licenziamento discriminatorio: tutela reale ante Fornero, si spera senza opzione aziendale, ma, si ricorda, sommessamente, solo ove l’imprenditore sia così sprovveduto da non addurre motivazioni economiche, che, affiancandosi alla discriminazione, per giurisprudenza costante rendono legittima l’interruzione del rapporto.
Tornando al tema, e rivedendo la normativa precedente, non può sfuggire il “cambio di verso”.
L’opzione aziendale, anche se non si chiamava in modo così ganzo e moderno, era prerogativa del piccolo imprenditore, anche in caso di illegittimità del licenziamento, mentre quando erano le imprese medio-grandi a licenziare, sempre illegittimamente, stava al lavoratore decidere se rientrare in azienda oppure ottenere una indennità prefissata, quindi esercitare l’opzione. Questo generava un sistema bilanciato di reciproche tutele rapportato alle dimensioni dell’impresa.
L’opzione aziendale estesa a tutte le imprese indipendentemente dalla loro dimensione, oltre a chiudere in modo tombale ogni possibilità di reintegro, rappresenta il definitivo e formale abbandono della concezione del lavoratore come parte debole maggiormente garantita, per affermare quella del lavoratore come parte debole tout court.
Non c’è nessuna giustificazione di sistema a questa impostazione, posto che è pacifica (e sostenuta fino a ieri dallo stesso premier) l’assoluta ininfluenza della disciplina dei licenziamenti sull’economia, sugli investimenti esteri, sulla ripresa. L’unica giustificazione è politica e sociale. È, o meglio potrebbe essere, il trionfo di chi si può permettere di andare a cena col premier per 1000 euro nei confronti di chi con 1000 euro deve mangiare per un mese, per dirla alla Landini.
Il trionfo di chi a queste cene ha ascoltato l’anfitrione pronunciare frasi come “noi vi diciamo che il principio del reintegro è assurdo, vi diciamo che la riforma del lavoro e dell’articolo 18 servono anche perché i giudici devono fare i giudici e gli imprenditori devono fare gli imprenditori”, ed ha applaudito fino a spellarsi le mani.
E purtroppo l’anfitrione, la star della serata, è anche il segretario di quello che dovrebbe essere un partito anche di sinistra, almeno un po’, ed invece è proprio il partito che sta spostando equilibri sociali, già precari a causa della crisi, dalla parte del più forte, che casualmente sta a destra.
Forse, per chi si definisce “di sinistra” e non ha ancora capito o si rifiuta proprio di capire cosa stia succedendo, è il caso di aprire gli occhi di fronte alla realtà: #èpossibile, basta un movimento delle palpebre verso l’alto.