Pochissimi giorni fa — era il sei febbraio — un articolo di Marco Zatterin, su La Stampa, titolava così:
La notizia riguardava l’accordo raggiunto da Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Regno Unito, firmatari di una lettera indirizzata alla Commissione con la quale chiedevano maggiore protezione per il settore siderurgico. Tra i passaggi più rilevanti rientra l’ipotesi di prevedere misure antidumping anche sulla base di «danno minacciato», per tutelare un settore che «rischia il collasso». I numeri della crisi che colpisce il settore siderurgico in Europa, infatti, sono drammatici. Una crisi che — naturalmente — ha coinvolto direttamente il nostro Paese, rappresentato dalla ministra Guidi, firmataria della lettera. Rappresentato solo sulla carta, però, e solo a parole. Sono passati meno di dieci giorni dalla sottoscrizione della lettera. Pochi, ma sufficienti sia perché il settore intero si mobilitasse, sia perché il governo italiano decidesse di abbandonare la partita:
Sfilano oggi a Bruxelles cinquemila uomini e donne che passano le giornate a forgiare tondini e profilati a caldo. In piazza anche i loro datori di lavoro, che vedono i piani e le investimenti messi a rischio dalla concorrenza sleale. Ci sono i governi dei paesi produttori d’acciaio che, insieme, chiedono all’Ue di proteggere un’industria storica e importante, nonché le migliaia di persone a cui dà un impiego. Ci sono tutti. Meno il ministro italiano. La Signora Guidi è rimasta a Roma. Un impegno dell’ultimo momento. Ha mandato un direttore generale. Ma la Commissione le ha fatto sapere che l’incontro è politico e che dunque non potrà parlare. Lo faranno spagnoli, francesi, britannici, lussemburghesi e tedeschi. Spiegheranno dubbi e rabbia per l’industria asiatica, che produce troppo e lo vende a poco. Chiederanno misure di tutela (e non di protezione, sia chiaro). L’Italia non lo farà. Come se non fosse il secondo produttore europeo. Come se non avesse firmato la lettera del patto di Acciaio con i cinque partner. Come se non avesse il caso Ilva da gestire a Bruxelles. Come se non fosse importante. Chi lo rivela, in Commissione, sorride amaro. In effetti, se mai ce ne doveva essere uno, questo sarebbe stato il giorno perfetto per battere i pugni sul tavolo dell’Europa. Invece no.
E secondo voi il pasticcio finisce qui? Certo che no:
Il migliore “sostituto” per la Guidi sarebbe stato Carlo Calenda, tuttora in carica come il vice ministro allo Sviluppo economico, dunque il numero due dello stesso ministero. Uno che ha fatto della questione Cina e della battaglia contro la concessione dello status di economia di mercato a Pechino una priorità assoluta. Ora, è vero che Calenda è stato nominato nuovo rappresentante permanente d’Italia presso l’Ue, ma l’incarico scatta da marzo, e la sua funzione di vice ministro è ancora valida.
Perla delle perle: a quanto si apprende, Calenda in questa giornata all’insegna dell’acciaio era proprio a Bruxelles, per preparare il suo arrivo da rappresentante permanente. Dunque si sarebbe trattato di spostare qualche appuntamento per partecipare al tavolo di alto livello sull’acciaio. Cosa oltretutto che gli sarebbe stato utilissima per il suo futuro di ambasciatore dell’Italia presso le istituzioni europee. Invece, Calenda risulta non pervenuto. E qualche maligno sostiene che c’entrerebbero i non proprio idilliaci rapporti con la Guidi.
Un governo tutto in famiglia, incapace di rappresentare l’Italia quando conta. Quando conta per la nostra economia, e non per l’immagine del premier. Ma la prossima volta tireremo fuori i pugni dalle tasche, e li picchieremo sul tavolo. Molto, ma molto forte. Si tratta solo di trovare il tavolo, in fin dei conti.