Nel dibattito sulla transizione energetica, l’idrogeno è ormai da decenni un argomento ricorrente ma controverso. Già nel 2003 l’idrogeno veniva citato come il carburante del futuro nientemeno che dal Presidente degli Stati Uniti, ed è un punto cardine dell’attuale piano di decarbonizzazione dell’economia della Commissione Europea, approvato in questi giorni dal Consiglio d’Europa. Eppure dal punto di vista tecnologico non molto è cambiato rispetto a 17 anni fa, se non che il trasporto con cui le case automobilistiche mostravano prototipi di auto a idrogeno è scomparso ed è stato sostituito dall’entusiasmo dei produttori di navi e aerei. Al di là della retorica degli annunci politici, quella dell’idrogeno è una storia complessa e con un finale per nulla scontato, che parte proprio da come l’idrogeno “nasce” sul nostro pianeta.
L’idrogeno è il primo elemento della tavola periodica, il più leggero, formato da appena un protone ed un elettrone. Tanto leggero che, pur essendo l’elemento più diffuso nell’universo conosciuto, non può essere trattenuto dalla debole gravità del nostro pianeta nella sua forma molecolare, H2, un gas molto reattivo e poco denso. L’idrogeno che troviamo sul nostro pianeta è quindi tutto sotto forma di composti, ovvero legato ad altri elementi chimici: è il principale componente dell’acqua (con l’ossigeno, H2O) e degli idrocarburi (con il carbonio, CxHy) che danno forma a tutta la vita terreste.
La differenza fra l’idrogeno e i combustibili a cui siamo abituati – dal legno al petrolio – è che l’idrogeno non è una risorsa naturale da estrarre, ma un composto chimico da produrre. Di conseguenza l’idrogeno non è una fonte di energia primaria, da estrarre e bruciare per fornire elettricità o calore, ma solo un modo per trasformare una forma di energia in un’altra. E allora il sistema che si usa per produrre l’idrogeno diventa il fattore più importante per capire se è solo il rebranding di un combustibile fossile o una riserva di energia realmente sostenibile.
L’idrogeno viene già oggi utilizzato in una moltitudine di processi industriali, in particolare come reagente nel settore chimico. Il sistema più economico per produrlo – oggi utilizzato in oltre il 90% dei casi – è il processo chiamato Steam Methane Reforming, o SMR. È un processo sulla carta molto semplice, in cui una molecola di metano e due di acqua si trasformano in quattro molecole di idrogeno e una di anidride carbonica:
Questo è quanto viene chiamato idrogeno grigio, e che come si vede porta con sé notevoli emissioni di CO2 – maggiori, in effetti, di quelle dovute a bruciare gas per ricavare energia, senza passare dall’idrogeno. La sostenibilità ambientale dell’idrogeno grigio è quindi inesistente e anzi la sua produzione è responsabile dell’emissione di 830 milioni di tonnellate di CO2 l’anno in tutto il mondo, rendendolo uno dei settori produttivi con le più alte emissioni sul pianeta, dopo l’aviazione e prima della spedizione di merci.
Uno dei sistemi utilizzati per ridurre l’impatto ambientale della produzione di idrogeno è la cosiddetta CCS, dall’acronimo inglese di Carbon Capture and Storage (cattura e immagazzinamento dell’anidride carbonica). Il processo chimico è esattamente identico a quello illustrato prima, ma la CO2 prodotta insieme all’idrogeno ma viene catturata prima di disperdersi nell’atmosfera per essere poi immagazzinata nel sottosuolo, ottenendo quello che viene chiamato idrogeno blu. L’idrogeno blu è teoricamente a emissioni zero, ma pone il problema di dove e come immagazzinare quantità di anidride carbonica nell’ordine dei miliardi di tonnellate l’anno, ogni anno, per decenni, e necessita dell’estrazione di nuovi combustibili fossili dal sottosuolo.
L’altra principale fonte di idrogeno sul nostro pianeta è ovviamente l’acqua, formula chimica H2O. Al contrario del metano, l’acqua è un composto chimico estremamente stabile – è il motivo per cui non brucia a contatto con una fiamma. Per convincere l’acqua a “disfarsi” ed estrarre l’idrogeno è necessario fornire energia, in un processo chiamato elettrolisi:
Se l’energia viene generata da fonti rinnovabili, l’intero processo è a emissioni zero e il risultato è quello che viene chiamato idrogeno verde. Il limite evidente di questa tecnologia è che sono necessarie grandi quantità di energia rinnovabile perché questo idrogeno sia effettivamente verde, energia che talvolta sarebbe meglio spesa se fosse immessa direttamente nella rete elettrica: circa un terzo dell’energia utilizzata per produrre idrogeno verde viene dissipata, persa per sempre, aumentando il prezzo dell’idrogeno e potenzialmente aumentando l’uso di combustibili fossili, in un mondo come il nostro in cui la disponibilità di energia rinnovabile è limitata.
Viste così, nessuna delle tre opzioni sembra particolarmente sostenibile o desiderabile, in una prospettiva di transizione ecologica. Ed è vero: in un presente in cui le rinnovabili sono l’eccezione e non la norma, l’idrogeno è spesso solo un altro modo per bruciare combustibili fossili. L’idrogeno grigio è oggi una necessità industriale, una delle tante voci dell’industria umana che è nociva per il pianeta. Gli sforzi per rendere più sostenibile la produzione di idrogeno, quindi, non possono non essere inizialmente mirati alla decarbonizzazione di quell’inquinamento che già esiste, prima di poter anche solo preparare le basi per estenderne l’utilizzo ai trasporti o al riscaldamento casalingo.
Le cose cambiano quando invece si parla di prospettive future. Negli scenari dell’Unione Europea per la decarbonizzazione l’idrogeno rappresenta fra il 4% e il 23% del consumo di energia nel 2050. Gli usi previsti sono molti e diversificati, dai trasporti all’industria chimica, dall’energia all’edilizia, ma dipendono in gran parte dalla disponibilità di energia rinnovabile e dalla direzione che prenderanno alcuni settori durante la transizione ecologica. Per generare quantità simili di idrogeno verde sarebbe infatti necessaria una fornitura di energia rinnovabile pari all’80% dell’energia attualmente utilizzata dall’intera Unione Europea, equivalente ad una spesa di 1500 miliardi di euro in 30 anni in pale eoliche. È ovvio quindi come l’idrogeno verde diventi una soluzione praticabile su larga scala solo nel momento in cui l’intera fornitura elettrica deriverà da fonti rinnovabili, e solo a fronte di giganteschi investimenti nel settore energetico. In questo scenario, tuttavia, l’idrogeno ha un doppio utilizzo: non solo può essere usato come fonte energetica secondaria nelle case, nei trasporti e nell’industria, ma può anche essere utilizzato per appianare le variabilità intrinseche di fonti di energia non costanti come solare ed eolico. La sintesi dell’idrogeno verde diventa infatti efficiente nel momento in cui la potenza generata dalle centrali elettriche supera la domanda di energia della rete. Così facendo, la potenza in eccesso viene immagazzinata, e non è necessario “staccare” turbine eoliche e pannelli fotovoltaici. È il caso, ad esempio, dell’impianto di produzione di idrogeno verde di Bolzano, che sfrutta la potenza di picco inutilizzata per massimizzare l’efficienza del processo e minimizzare i costi. Tuttavia la quantità di idrogeno generabile in questo modo è purtroppo limitata al momento, e non permette quindi di decarbonizzare l’intera industria della produzione di idrogeno, ma ha il vantaggio di semplificare l’integrazione delle energie rinnovabili nella rete.
Negli ultimi sette anni il settore energetico europeo ha ottenuto oltre un miliardo di euro in fondi pubblici per lo sviluppo di progetti legati all’idrogeno, in gran parte spesi sull’idrogeno blu. I vantaggi di questa tecnologia sono evidenti, soprattutto per le aziende che hanno investito in gas naturale e che possono utilizzare i propri asset, in particolare giacimenti e gasdotti, anche in un’economia a emissioni ridotte. Ma lo sono anche per i governi: la sintesi di idrogeno blu è più efficiente di quella dell’idrogeno verde e non richiede l’installazione nuove centrali eoliche o solari, riducendo la spesa da 1.500 a 200 miliardi di euro entro il 2050, sempre secondo le stime della commissione europea. Se i vantaggi economici sono evidenti, però, quelli ambientali nascondo numerosi problemi, a cominciare dall’estrazione del metano – attività che di per sé ha un grosso impatto ambientale – per arrivare alla localizzazione e messa in sicurezza dei depositi di CO2 nel sottosuolo, passando per la tecnologia di cattura e separazione della CO2. Queste tecnologie sono infatti relativamente nuove, con rischi ancora non ben accertati, non sono ancora in grado di intrappolare il 100% della CO2 emessa e non possono in ogni caso essere sostenute nel lungo periodo: anche se tutte le riserve che conosciamo fossero in grado di immagazzinare anidride carbonica in sicurezza, il loro uso intensivo le riempirebbe in pochi anni. Le tecnologie basate sulla cattura e l’immagazzinamento dell’anidride carbonica possono essere uno step intermedio per limitare le emissioni di processi difficilmente elettrificabili come quelli della produzione di idrogeno, ma non è possibile considerare l’idrogeno blu come un carburante realmente pulito. Per quanto potrebbe risultare utile per rispettare alcuni traguardi di decarbonizzazione dei prossimi anni, utilizzare il termine idrogeno blu per dare un’aria di sostenibilità alle attività commerciali di grandi gruppi industriali è solo un modo per continuare ad inquinare il pianeta senza darlo a vedere.
Il tema dell’idrogeno è un tema complesso, che difficilmente si può sintetizzare in 1500 parole. La visione di futuro per l’Italia, l’UE e il mondo deve però essere quella in cui il pianeta è finalmente libero dalla dipendenza dai combustibili fossili, e che lo sia prima che i suoi polmoni siano troppo intossicati per andare avanti. Perché questo si realizzi non è possibile pensare a palliativi come l’immagazzinamento dell’anidride carbonica – in questo caso declinato nella produzione di idrogeno, ma troppo spesso inteso come sistema per mantenere in vita centrali elettriche a gas e carbone – se non per il raggiungimento di obiettivi urgenti e a breve termine. Nel lungo periodo, al contrario, l’idrogeno verde ha il potenziale per essere una fonte di energia chimica, termica ed elettrica estremamente versatile, che consentirà la completa decarbonizzazione della nostra economia. Perché questo si realizzi sono necessari investimenti senza precedenti nell’installazione di centrali elettriche che facciano uso di fonti rinnovabili, condizione necessaria a che la crisi climatica non devasti il pianeta, rendendo molti paesi – fra cui l’Italia – difficilmente abitabili.
Fabrizio SIlveri